Articolo,  Parole d'autore

Parole d’autore: la “Medea” di Euripide

Ma la fedeltà è perduta, né io riesco a capire
se credi negli dei di allora che non regnino più
o che nuovi leggi siano in vigore per gli uomini ora,
dato che sai di non essere fedele al giuramento nei miei confronti.
Euripide, Medea, 492-495

Euripide nacque intorno al 480 a.C. a Salamina e morì in Macedonia nel 406 a.C., ed, insieme ad Eschilo Sofocle, fu uno dei più grandi tragediografi greci.
Era un intellettuale appartato, dedito alla lettura ed all’attività poetica, e questo atteggiamento gli fece attribuire la nomea di misantropo, mentre il carattere fortemente innovativo ed avanzato della sua arte lo portò ad essere frainteso ed incompreso dal suo pubblico e dai suoi contemporanei.

Demitizza gli eroi del mito portandoli allo stesso piano dei suoi concittadini, in modo tale da farli immedesimare in essi, e passa al vaglio della ragione la realtà sociale e politica a lui contemporanea.
È in grado di penetrare con estrema acutezza nel mondo emozionale dei suoi personaggi: sono mossi da impulsi profondi, di cui non sono padroni, e sono sovradeterminati da forze irrazionali che li dominano contro la loro volontà e che li portano ad agire.
La tragicità del suo teatro consiste nella lucidità che possiedono i suoi personaggi nel comprendere razionalmente le loro azioni e la realtà a loro circostante, ma nella loro impotenza di sottrarsi alle forse irrazionali che si agitano in loro.
Dipinge con le sue parole un universo passionale ed emozionale più potente del λόγος (lògos), la ragione che i Greci tanto veneravano.
Le interezze delle creature di Euripide diventano le sue tragedie, in particolare quelle dei personaggi femminili, che sono quelli più reali, con i loro conflitti interiori e tormenti.
Smascherò, inoltre, l’aspetto più brutale ed autentico della realtà sociale per far riflettere e provocare il suo pubblico: il cinismo e l’interesse della politica, l’insensatezza della guerra, gli egoismi umani e la condizione sociale e politica della donna.
Passando dalla sfera umana a quella divina, Euripide mosse pesanti critiche alla religione tradizionale: ritiene che quegli dei siano immorali e che gli uomini abbiano bisogno di una dottrina purificata da ciò che è passionale, così da avere una guida sicura e per non abbandonarsi ad una ragione sottomessa alle emozioni.
Il suo è un cielo vuoto, e questa assenza compare anche nelle sue tragedie: gli dei, infatti, compaiono unicamente nel prologo e nell’esodo, in cui non sono portatori di valori etici e/o religiosi, ma operano come semplici personaggi.

La Medea fu composta tra il 431-428 a.C. e narra la storia della sua omonima protagonista, una maga barbara, distante dagli usi e costumi ateniesi: dopo aver aiutato Giasone a recuperare il vello d’oro ad avergli dato due figli, Medea viene ripudiata dall’eroe, che vuole sposare la figlia del re di Corinto.
Medea medita vendetta: finge di essersi riappacificata con Giasone e, tramite i figli, reca come doni nuziali alla principessa una ghirlanda ed una veste avvelenate. Non appena la ragazza indossa la veste, muore tra atroci sofferenze e così il padre, corso da lei per soccorrerla.
Come mossa conclusiva, Medea decide di infliggere la più crudele delle pene a Giasone: con il cuore tormentato ed infranto, uccide i suoi stessi figli e lascia Giasone annientato dal dolore, volando via sul carro alato del Sole.

La trama della tragedia si sviluppa attorno alla grande protagonista femminile, che domina incontrastata il dramma con la sua passionalità ed eccessività.
È caratteristico della visione tragica di Euripide tratteggiare i suoi personaggi scissi da forze e pulsioni opposte, per mostrare quanto sia complessa e contraddittoria la natura umana, e così è Medea: sa analizzare lucidamente i suoi pensieri, ma non è in grado di sottrarsi agli istinti irrazionali che covano dentro di lei.
Questa sua frattura suscita compassione ed, insieme, sconcerto ed orrore: è una madre amorevole, ma è anche una donna col cuore spezzato, con i sentimenti calpestati e ciò la porta a concepire azioni inimmaginabili per cercare di ricucire una ferita insanabile, una ferita dell’anima.
Giasone, invece, viene presentato come un uomo ridicolo, privo di quella patina eroica tipica dei personaggi del mito e dello spessore psicologico della protagonista.
Ed a pagare il prezzo dell’infedeltà e dell’orgoglio ferito sono i più innocenti e deboli, i bambini, i loro figli.
Il conflitto tra Giasone e Medea non è solo emozionale, ma è anche uno scontro tra la cultura greca e barbara, tra quella maschile della famiglia patriarcale e quella femminile dell’emotività e delle passioni.

Il passo riportato (che comprende i versi dal 465 al 544) narra parte dello scontro fra Medea e Giasone: la protagonista attacca l’uomo che un tempo amava, lo insulta e gli dice che non è degno di essere un uomo, sperando di sentirsi sollevata dopo lo sfogo.
Comincia ad elencare quello che ha fatto di bene per l’eroe, aiutandolo a superare le varie prove e difficoltà in cui si è imbattuto grazie alle sue doti magiche. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per Giasone perché la passione, e non la saggezza, governava il suo cuore: il cuore di una donna innamorata.
E, dopo ciò, inizia ad elencare le colpe del marito, il quale, nonostante il suo aiuto ed il fatto che avesse avuto dei figli da lei, la tradisce e la umilia procurandosi una nuova sposa.
Medea pronuncia parole forti: è una questione morale e religiosa, lui viola il loro matrimonio ed il giuramento che entrambi si sono scambiati davanti agli dei.
In quegli dei Giasone crede ancora? No, dato che non ha mantenuto le promesse nei suoi confronti e ne ha fatte altre che si sono rivelate inutili, perciò lo accusa di essere un fedifrago ed un ingrato: è stata delusa nelle speranze.
Una forte ironia permea l’arringa di Medea, soprattutto quando gli rivolge un serie di domande (vv. 502-505): lei non sa più dove andare, dal momento che, per lui, ha nociuto a persone care ed ad altre che non le avevano fatto alcun male.

Però, nonostante tutto questo, le donne greche continuano a pensare che Giasone sia un marito straordinario e lei una donna estremamente fortunata.
È interessante notare che Medea non pronuncia e non si rivolge mai al marito dicendo il suo nome, quasi come se volesse annullare l’individualità dell’uomo che l’ha tradita, come se non volesse avere più sulla labbra nemmeno il ricordo di lui. Non può più baciarla.
Alla fine del suo discorso, la protagonista afferma che non avrebbe fatto ciò che ha fatto se avesse riconosciuto subito in lui un uomo malvagio. Ma, se riconoscere l’oro è facile, vedere l’anima di un uomo ed avventurarsi sotto la superficie è un’altra storia.
Con queste ultime battute di Medea, la riflessione di Euripide abbraccia tutto il genere umano ed è una considerazione amara: è difficile conoscere e giudicare un altro essere umano.

Interviene il coro e pronuncia una sorta di sentenza: più ci si vuole bene, più ci si arrabbia quando siamo delusi.
Poi la parola passa a Giasone, che subito dice a Medea che le sue chiacchere lo stanno soffocando e che non è stato merito suo se lei lo ha aiutato, ma di Afrodite che l’ha fatta innamorare di lui e lo ha soccorso nella sua spedizione.
Elimina ogni tipo di merito a Medea, asserendo che Eros, facendola innamorare, gli ha salvato la vita; ma per Euripide l’amore è un atto libero, quindi è la protagonista ad avere tutti i meriti per ciò che ha fatto per il suo amato.
Giasone, inoltre, afferma di non essere ingrato, ma anzi di averle dato moltissimo ed inizia un elenco: le ha permesso di vivere in Grecia, terra in cui la giustizia si fa rispettare con le leggi e non con la forza, ed ha acquisito la fama di sapiente per le sue doti magiche.
Per lui la cosa più importante è la gloria, per questo non vuole essere ricco o un poeta come Orfeo: le sta dicendo che lui l’ha fatta diventare una donna gloriosa, lei ha guadagnato più di lui. Oppure fa finta di credere questo per consolare Medea, comportandosi così in modo subdolo.

*L’opera in copertina è  Medea e Giasone, di John William Watherouse, credit, 1907

465  MEDEA O scellerato, infatti questo posso dirti
           con la mia lingua come massimo oltraggio per la tua condotta non degna di un uomo;
           sei giunto da me, sei giunto risultando odiosissimo
           agli dei, a me, a tutto il genere umano?
           Questo non è certo né audacia né coraggio,
470 guardare in faccia le persone care dopo aver fatto loro del male,
          ma è il più grande di tutti i mali tra gli uomini,
          l’impudenza. Hai fatto bene a venire:
          infatti io dicendo male di te
          sarò alleggerita nell’animo e tu soffrirai ascoltandomi.
475 A partire dalle prime cose in primo luogo comincerò a parlare:
         io ti ho salvato, come sanno quanti fra i Greci
          s’imbarcarono sulla medesima nave Argo,
          quando fosti mandato a sottomettere i tori che spiravano
          fuoco con dei gioghi ed a seminare il campo mortale ;
480 Sollevai per te la luce della salvezza
          uccidendo il drago che custodiva il vello d’oro,
          avvolgendolo con spire molto intrecciate rimanendo insonne .
          Ed io, dopo aver tradito mio padre e la mia casa,
          giunsi a Iolco Peliatide con te,
485 ben disposta più che saggia;
          Uccisi Pelio nel modo in cui è più doloroso morire,
          per mano delle sue figlie, annientai tutta la loro casa .
          E, peggiore fra gli uomini, pur avendo
          ricevuto questo da me, mi abbandonasti, ti procurasti un nuovo letto
490 pur essendoti nati dei figli: se infatti eri ancora senza figli
          sarebbe perdonabile il fatto che tu fossi innamorato di questa sposa.
          Ma la fedeltà è perduta, né io riesco a capire
          se credi negli dei di allora che non regnino più
          o che le nuovi leggi siano in vigore per gli uomini ora,
495 dato che sai di non essere fedele al giuramento nei miei confronti.
          Ahimè, la mano destra, che tu molte volte stringevi,
          e queste ginocchia, come inutilmente sono state accarezzate
          da un uomo malvagio, siamo state deluse nelle speranze.
          Orsù, poiché ti considero un amico mi consiglierò con te
500 (pensando di essere felice ad opera tua in che cosa?
          ma tuttavia, infatti, interrogato apparirai infame);
          Ora dove mi rivolgerò? Forse alla casa paterna,
          che avendo tradito e la patria per te giunsi qui?
          Oppure dalle infelici Peliadi? Mi accoglierebbero quindi
505 bene esse delle quali uccisi il padre in casa .
         Le cose infatti stanno così: alle persone care di casa
         sono divenuta nemica , mentre ho come nemici per farti
         un favore quelli ai quali non avrei dovuto fare del male.
         Dunque, per molte fra le donne greche, mi hai resa felice
510  in cambio di ciò; ho te come marito meraviglioso e fedele
          io parevo infelice, se fuggirò
          questa terra esiliata,
          priva di amici, io sola con i miei figli soli;
           è davvero una bella fama per lo sposo
515  novello, che vaghino come mendicanti i tuoi figli ed io che ti ho salvato.
          O Zeus, perché dell’oro che sia eventualmente falso
          hai fornito prove certe agli uomini,
          mentre degli uomini non vi è nessun contrassegno
          sul corpo per mezzo del quale si deve riconoscere il malvagio.
520 CORO Una collera terribile ed insanabile c’è,
          qualora amici vengano in contrasto con altri amici.
          GIASONE Come sembra è necessario che io sia molto abile a parlare,
          ma, come l’esperto timoniere di una nave,
           è necessario che io sfugga con gli estremi lembi della vela
525 la tua chiacchera interminabile, o donna.
          Ma io, poiché anche troppo esalti i tuoi meriti,
          ritengo che Cipride sia la mia unica salvatrice
          lei fra gli dei e gli uomini della mia spedizione marittima.
          Tu hai una mente sottile; ma è per te
530 un discorso odioso da affrontare il fatto che Eros ti costrinse
          con frecce invitabili a salvare il mio corpo.
          Ma non stabilirò troppo precisamente questo punto:
          comunque tu abbia aiutato non va male.
          Hai ottenuto certo vantaggi maggiori in cambio della mia
535 salvezza e li hai dati, come io esporrò.
          In primo luogo invece di una terra barbara abiti la terra
          greca e conosci la giustizia e sai servirti delle leggi
          non in virtù della forza;
          tutti i Greci hanno saputo che sei sapiente ed hai ottenuto
540 fama per questo: se tu abitassi negli ultimi confini della terra,
          non ci sarebbe fama per te.
          Io non vorrei avere né oro in casa né che mi
          sia possibile cantare un canto più dolce di quello di Orfeo,
          se per me la sorte non fosse gloriosa.

Testo originale greco

465 ΜΗΔΕΙΑ Ὦ παγκάκιστε, τοῦτο γάρ σ᾽ εἰπεῖν ἔχω
γλώσσῃ μέγιστον εἰς ἀνανδρίαν κακόν·
ἦλθες πρὸς ἡμᾶς, ἦλθες ἔχθιστος γεγώς
[θεοῖς τε κἀμοὶ παντί τ᾽ ἀνθρώπων γένει];
Οὔτοι θράσος τόδ᾽ ἐστὶν οὐδ᾽ εὐτολμία,
470 φίλους κακῶς δράσαντ᾽ ἐναντίον βλέπειν,
ἀλλ᾽ ἡ μεγίστη τῶν ἐν ἀνθρώποις νόσων
πασῶν, ἀναίδει᾽. Εὖ δ᾽ ἐποίησας μολών·
ἐγώ τε γὰρ λέξασα κουφισθήσομαι
ψυχὴν κακῶς σὲ καὶ σὺ λυπήσῃ κλύων.
475 Ἐκ τῶν δὲ πρώτων πρῶτον ἄρξομαι λέγειν·
ἔσωσά σ᾽, ὡς ἴσασιν Ἑλλήνων ὅσοι
ταὐτὸν συνεισέβησαν Ἀργῷον σκάφος,
πεμφθέντα ταύρων πυρπνόων ἐπιστάτην
ζεύγλαισι καὶ σπεροῦντα θανάσιμον γύην·
480 δράκοντά θ᾽, ὃς πάγχρυσον ἀμπέχων δέρος
σπείραις ἔσῳζε πολυπλόκοις ἄυπνος ὤν,
κτείνασ᾽ ἀνέσχον σοι φάος σωτήριον.
Αὐτὴ δὲ πατέρα καὶ δόμους προδοῦσ᾽ ἐμοὺς
τὴν Πηλιῶτιν εἰς Ἰωλκὸν ἱκόμην
485 σὺν σοί, πρόθυμος μᾶλλον ἢ σοφωτέρα·
Πελίαν τ᾽ ἀπέκτειν᾽, ὥσπερ ἄλγιστον θανεῖν,
παίδων ὕπ᾽ αὐτοῦ, πάντα τ᾽ ἐξεῖλον δόμον.
Καὶ ταῦθ᾽ ὑφ᾽ ἡμῶν, ὦ κάκιστ᾽ ἀνδρῶν, παθὼν
προύδωκας ἡμᾶς, καινὰ δ᾽ ἐκτήσω λέχη,
490 παίδων γεγώτων· εἰ γὰρ ἦσθ᾽ ἄπαις ἔτι,
συγγνώστ᾽ ἂν ἦν σοι τοῦδ᾽ ἐρασθῆναι λέχους.
Ὅρκων δὲ φρούδη πίστις, οὐδ᾽ ἔχω μαθεῖν
εἰ θεοὺς νομίζεις τοὺς τότ᾽ οὐκ ἄρχειν ἔτι
ἢ καινὰ κεῖσθαι θέσμι᾽ ἀνθρώποις τὰ νῦν,
495 ἐπεὶ σύνοισθά γ᾽ εἰς ἔμ᾽ οὐκ εὔορκος ὤν.
Φεῦ δεξιὰ χείρ, ἧς σὺ πόλλ᾽ ἐλαμβάνου,
καὶ τῶνδε γονάτων, ὡς μάτην κεχρῴσμεθα
κακοῦ πρὸς ἀνδρός, ἐλπίδων δ᾽ ἡμάρτομεν.
Ἄγ᾽, ὡς φίλῳ γὰρ ὄντι σοι κοινώσομαι
500 (δοκοῦσα μὲν τί πρός γε σοῦ πράξειν καλῶς;
Ὅμως δ᾽, ἐρωτηθεὶς γὰρ αἰσχίων φανῇ)·
νῦν ποῖ τράπωμαι; Πότερα πρὸς πατρὸς δόμους,
οὓς σοὶ προδοῦσα καὶ πάτραν ἀφικόμην;
Ἢ πρὸς ταλαίνας Πελιάδας; Καλῶς γ᾽ ἂν οὖν
505 δέξαιντό μ᾽ οἴκοις ὦν πατέρα κατέκτανον.
Ἔχει γὰρ οὕτω· τοῖς μὲν οἴκοθεν φίλοις
ἐχθρὰ καθέστηχ᾽, οὓς δέ μ᾽ οὐκ ἐχρῆν κακῶς
δρᾶν, σοὶ χάριν φέρουσα πολεμίους ἔχω.
Τοιγάρ με πολλαῖς μακαρίαν Ἑλληνίδων
510 ἔθηκας ἀντὶ τῶνδε· θαυμαστὸν δέ σε
ἔχω πόσιν καὶ πιστὸν ἡ τάλαιν᾽ ἐγώ,
εἰ φεύξομαί γε γαῖαν ἐκβεβλημένη,
φίλων ἔρημος, σὺν τέκνοις μόνη μόνοις·
καλόν γ᾽ ὄνειδος τῷ νεωστὶ νυμφίῳ,
515 πτωχοὺς ἀλᾶσθαι παῖδας ἥ τ᾽ ἔσωσά σε.
Ὦ Ζεῦ, τί δὴ χρυσοῦ μὲν ὃς κίβδηλος ᾖ
τεκμήρι᾽ ἀνθρώποισιν ὤπασας σαφῆ,
ἀνδρῶν δ᾽ ὅτῳ χρὴ τὸν κακὸν διειδέναι
οὐδεὶς χαρακτὴρ ἐμπέφυκε σώματι;
520 ΧΟΡΟΣ Δεινή τις ὀργὴ καὶ δυσίατος πέλει,
ὅταν φίλοι φίλοισι συμβάλωσ᾽ ἔριν.
ΙΑΣΩΝ Δεῖ μ᾽, ὡς ἔοικε, μὴ κακὸν φῦναι λέγειν,
ἀλλ᾽ ὥστε ναὸς κεδνὸν οἰακοστρόφον
ἄκροισι λαίφους κρασπέδοις ὑπεκδραμεῖν
525 τὴν σὴν στόμαργον, ὦ γύναι, γλωσσαλγίαν.
Ἐγὼ δ᾽, ἐπειδὴ καὶ λίαν πυργοῖς χάριν,
Κύπριν νομίζω τῆς ἐμῆς ναυκληρίας
σώτειραν εἶναι θεῶν τε κἀνθρώπων μόνην.
Σοὶ δ᾽ ἔστι μὲν νοῦς λεπτός· ἀλλ᾽ ἐπίφθονος
530 λόγος διελθεῖν ὡς Ἔρως σ᾽ ἠνάγκασεν.
Τόξοις ἀφύκτοις τοὐμὸν ἐκσῶσαι δέμας.
Ἀλλ᾽ οὐκ ἀκριβῶς αὐτὸ θήσομαι λίαν·
ὅπῃ γὰρ οὖν ὤνησας οὐ κακῶς ἔχει.
Μείζω γε μέντοι τῆς ἐμῆς σωτηρίας
535 εἴληφας ἢ δέδωκας, ὡς ἐγὼ φράσω.
Πρῶτον μὲν Ἑλλάδ᾽ ἀντὶ βαρβάρου χθονὸς
γαῖαν κατοικεῖς καὶ δίκην ἐπίστασαι
νόμοις τε χρῆσθαι μὴ πρὸς ἰσχύος χάριν·
πάντες δέ σ᾽ ᾔσθοντ᾽ οὖσαν Ἕλληνες σοφὴν
540 καὶ δόξαν ἔσχες· εἰ δὲ γῆς ἐπ᾽ ἐσχάτοις
ὅροισιν ᾤκεις, οὐκ ἂν ἦν λόγος σέθεν.
Εἴη δ᾽ ἔμοιγε μήτε χρυσὸς ἐν δόμοις
μήτ᾽ ᾽Ορφέως κάλλιον ὑμνῆσαι μέλος,
εἰ μὴ ᾽πίσημος ἡ τύχη γένοιτό μοι.

*L’opera in copertina è  Medea e Giasone, di John William Watherouse, credit, 1907

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