Inedito

Un’amicizia – Prologo

di Francesco Merletti

INIZIARE

‘E notte. Da ore, anzi da giorni non riesco a prendere sonno. Il mio animo si agita continuamente.  Irrequieto. Il mio corpo è tutto pieno di fastidiosi fremiti che si spargono dai capelli del capo fino alla punta dei piedi. Non riesco a stare fermo. Il mio letto, l’unico su cui io sia mai riuscito a dormire decentemente, è divenuto per me un inferno. In qualunque posizione mi giri sento aghi sottilissimi che penetrano sotto la mia pelle. Basta. La situazione sta diventando insopportabile. Ora è troppo. Devo alzarmi. Sì, devo assolutamente alzarmi. “Per fare che cosa?” mi chiedo. Una domanda di cui io in fondo conosco già la risposta. Perché c’è una sola cosa che io riesca a fare, senza correre il pericolo di danneggiare me stesso e gli altri. Scrivere. Sì, devo scrivere. Devo tornare in qualche modo a scrivere. Non posso più aspettare. Nemmeno un minuto. Con un rapido movimento silenzioso accendo la piccola lampada che tengo sul comodino, perché non voglio disturbare mio padre, che dorme nella stanza vicina alla mia. Mi metto seduto sul letto e finalmente inizio a scrivere. Inizio a scrivere con il dubbio che l’opera che con tanta ansia mi accingo a iniziare nel cuore di una notte di agosto forse non sarà mai conclusa – sono troppo incostante – né tantomeno pubblicata. Ormai però ho deciso. Devo iniziare. Aspettare domani non servirebbe a nulla.

Iniziare. Che bel concetto. Nella vita gli inizi sono sempre così gioiosi. Quante emozioni e quanti ricordi: il primo giorno di scuola, la prima volta al mare, il primo bacio, il primo viaggio da soli. C’è una sorta di positività che si nasconde nel concetto di “inizio”. Quanto è bella una vita che comincia! Quante emozioni regala quel vagito così puro e semplice nel neonato, capace di scaldare anche il cuore dell’uomo più insensibile! Tante volte nella vita vorremmo iniziare cose nuove. Spesso non sappiamo come fare. E non accade diversamente nella scrittura: questa notte ho deciso di incominciare a scrivere un racconto, ma non so né da che parte cominciare, né perché io davvero senta questo bisogno impellente. Eppure scrivo tutto il giorno: appunti, ricerche, riassunti, messaggi, e-mail. Ma quelle cose sono così semplici da scrivere: basta seguire l’ordine che è stato stabilito ed è fatta. Quando si vuole raccontare se stessi, è tutto più difficile. E questa non è la prima volta che decido di scrivere per passione o, come forse sarebbe meglio dire, per non soccombere al mondo. Alcuni anni fa ho scritto alcune pagine sulla mia vita e i miei sentimenti. In particolare voglio ricordare alcune poesie dedicate a una ragazza, di cui ero follemente e innocentemente innamorato ai tempi dell’ultimo anno del Liceo, e altre che invece trattavano temi che avevo desunto dai miei studi classici, come l’impossibilità di afferrare il tempo che fugge. Nulla di più. Quaranta poesie in tutto. Le avevo stampate per alcuni amici, raccogliendole in un libretto neppure rilegato, che, tuttavia, avevo elegantemente e grandiosamente intitolato Profundae cogitationes. Ho riletto di recente quei miei scritti e ho anche tentato di operare qualche correzione in particolare sulla metrica. Ad oggi disprezzo quei testi, ma non mi pento di averli composti. Erano particolarmente vicini alla mia sensibilità di allora, forse ancora un po’ troppo sdolcinata e pseudo-romantica. Il loro significato letterario è nullo, ma per me segnarono l’inizio della vera scrittura e perciò ho comunque scelto di riportare alcuni di quei testi all’interno di questa narrazione. All’epoca credevo di aver compiuto una sorta di rivoluzione poetica con la composizione di quelle poche righe. Mi credevo un piccolo Montale. Mi piaceva definirmi “un elegiaco che parla per immagini”. Oggi le ritengo semplicemente delle misere poesiole composte da un ragazzino inesperto. Da allora ho provato tante volte a ricominciare a scrivere in versi e in prosa, ma non ho ricavato altro che due o tre poesiole brevissime, piuttosto ermetiche e altisonanti, che forse avrò modo di citare nel corso della mia narrazione, e ben due trame di romanzi. Di entrambi provai a scrivere un possibile incipit, ma non fui soddisfatto e m’imposi di non proseguire. Non volevo aggiungere due nuovi libri di dubbio valore al mercato, già grandemente assuefatto dalle opere di scrittori improvvisati. Erano comunque delle belle storie, ben congegnate, forse anche adatte al grande pubblico, ma non le sentivo mie. Ho dovuto abbandonarle o non ho avuto voglia di scriverle in una bella forma. Se non si considerano questi esperimenti miseramente falliti, la mia attività di scrittura nell’ultimo anno è stata davvero limitata alla stesura di appunti e riassunti per gli esami dell’università. Mi trovo dunque in una situazione piuttosto triste e arida. Ma questa notte sento che devo incominciare qualcosa di nuovo e di grande e, anche se è tutto così difficile, devo in qualche modo mettere ordine nei miei pensieri.

Conviene che prima di tutto chiarisca a me stesso perché io senta questo bisogno di scrivere. Questa è la prima domanda che si pone il bravo scrittore, il quale deve essere sempre capace di fissarsi un chiaro obiettivo prima di iniziare. C’è chi semplicemente scrive per vendere, chi vuole esprimere i propri sentimenti, chi vuole soddisfare le attese di un pubblico che con le opere precedenti si è creato e che attende con impazienza di conoscere gli sviluppi di una storia già iniziata. Si tratta, come si capisce, di una suddivisione troppo schematica, all’interno della quale non potrebbero essere contenute le motivazioni profonde della mia scrittura. Allora perché scrivo? Ebbene, penso finalmente di aver trovato una risposta che mi soddisfi. Io scrivo per supplire alle mancanze della memoria umana. Penserete certamente che io sia pazzo. Crederete che il troppo studio mi stia rincitrullendo fino al punto da farmi pensare che l’unico obiettivo della scrittura sia di costituire un appoggio per la memoria. Una funzione che, di fatto, svolgono quegli schemi e quei riassunti che si preparano prima di un compito in classe o di un’interrogazione. Si tratta di un’obiezione legittima, lo riconosco. Ma il vostro pensiero non riuscirà questa notte a distogliermi dal proposito di scrivere. Secondo Primo Levi la memoria è uno strumento bellissimo e terribile. Nella mia mente il ricordo genera da sempre angoscia. Ho allo stesso tempo paura di non ricordare e paura di non essere ricordato. Al primo timore ho trovato una soluzione, sebbene poco elaborata, ormai da alcuni anni. Ho incominciato, infatti, ad annotare su un’agenda tutti i luoghi che ho visitato e tutte le persone che ho incontrato e che in un certo senso hanno contribuito alla mia esistenza, dai compagni di scuola agli amici di sempre. Sono arrivato persino ad abbozzare disegni approssimativi di alcuni passanti, di cui non conoscevo nemmeno il nome, ma che mi avevano colpito per una loro caratteristica particolare e che a causa di questa erano degni di essere ricordati. Sono ossessionato dal poter dimenticare anche solo una persona tra coloro che sono stati per me importanti o anche solo presenti in determinate situazioni della mia vita. Tuttavia non è sufficiente una pagina del mio diario per parlare di un’amicizia autentica e profonda come questa. Ho bisogno di più spazio, di più libertà, di un contesto diverso per annotare i miei pensieri. Mentre scrivo queste cose, mi convinco sempre più di essere malato. Forse dovrei farmi curare. Chissà cosa sarebbe successo se nel corso della mia vita fossi andato realmente da uno psicologo? Sarei davvero cambiato? Queste ossessioni mi avrebbero abbandonato? Chi può dirlo? Ormai è tardi. Sono arrivato a un punto di non ritorno. Iniziare ora una terapia non servirebbe a nulla.

Scrivo, dunque, per non dimenticare. Scrivo, allo stesso tempo, per non essere dimenticato. Questa è forse un’ossessione più profonda e terribile della prima. Che cosa siamo nel mondo? Nulla. Polvere e Ombra, direbbe Orazio. La Sacra Scrittura afferma che la nostra vita è simile a quella di un fiore del campo che fiorisce al mattino e avvizzisce alla sera. Quanto vale il tempo della nostra vita nell’infinito scorrere delle ere cosmiche? Nulla. E questo pensiero mi terrorizza. Se non avrò moglie né figli, dopo cinque, dopo anche dieci anni dalla mia scomparsa, chi potrà mai ricordarsi di questo misero essere che sono? Chi parlerà ancora della sua povera vita? Proprio nessuno. A che cosa sono dunque valse le tante fatiche che faccio ora per imparare e che un giorno farò per mangiare, se non vi sarà nessuno capace di ricordarle. Proprio a niente. Si tratta di una prospettiva terribile ma realistica. Oh se tutti scrivessimo un’agenda come quella che io ho iniziato anni fa, se la passassimo nel momento del transito a una persona di fiducia, cosicché costui la possa conservare, leggere costantemente e tramandare assieme alla sua ai propri discendenti! Forse il problema sarebbe minore, ma nemmeno così si potrebbe risolvere. ‘E insita nell’uomo la tendenza a scomparire nella memoria degli altri. Quando guardo le foto dei miei nonni, che pure mi hanno cresciuto, ricordo il loro volto, ricordo alcuni episodi vissuti insieme, ma le persone reali con tutte le sfaccettature e i dettagli mi sfuggono costantemente. E quanto più si dimenticano le persone che abbiamo conosciuto appena! C’è però una soluzione: possiamo lasciare un segno nel mondo e nella memoria degli altri con le nostre capacità. Io so scrivere in modo discreto e dunque scrivo per non essere dimenticato: se mai questo racconto sarà pubblicato, se mai qualcuno lo leggerà tra tanti anni, allora io sarò ricordato per mezzo della mia opera. Il mio lettore forse parlerà di me con i suoi conoscenti, forse non dimenticherà mai questo racconto, ed io allora continuerò a vivere nei suoi sogni.

Ho detto, dunque, che scrivo perché ho paura di dimenticare e di essere dimenticato. Perché, allora, non ho cominciato prima? Perché aspettare questa notte di mezz’estate? Forse perché non ne avevo voglia. Forse perché fino ad oggi non ho saputo cogliere queste mie paure. Forse perché i fatti della mia vita erano talmente poco interessanti da poter essere facilmente riassunti nelle mie poesiole e negli appunti sulla mia agenda. Ora però c’è un’amicizia su cui scrivere. Quando oggi Margherita mi ha detto che forse sarebbe dovuta partire, non ho potuto resistere. Ho sentito subito il bisogno di scrivere e di piangere. A volte si piange più per un’amicizia che per un amore finito, perché, di fatto, come Margherita mi ha insegnato, anche l’amicizia è amore. Un amore incondizionato, per essere precisi. Non un sentimento carnale, ma di certo un amore. Solo oggi ho realizzato l’eventualità della tua partenza. E allora è nata in me la paura di dimenticarti, la paura di essere dimenticato e anche, se vogliamo, la paura che gli altri dimentichino la bellezza di questo nostro rapporto, rifiorito dopo tanto tempo. Tutte queste cose mi obbligano a scrivere. Dovrei studiare. Gli esami di settembre si avvicinano. Ma queste cose che sto scrivendo mi paiono più urgenti. Voglio che tu riceva questo scritto prima che in te agisca quella tendenza involontaria a dimenticarmi.

Ho chiarito, sebbene in maniera un po’ laboriosa, le motivazioni del mio scrivere. L’ho fatto per me stesso e per i miei cinque lettori, che di certo perdoneranno l’esposizione un po’ confusa e ingarbugliata dei miei pensieri. Ora, però, sorge in me un’ulteriore domanda: da dove devo cominciare? Potrei incominciare dal giorno del nostro primo incontro? O forse, approfittando della situazione, dovrei incominciare dalla mia nascita e in breve raccogliere i pochi ricordi che mi restano dei primi anni di vita? Oppure potrei incominciare dalla camminata che oggi abbiamo fatto insieme e procedere a ritroso tra le nostre gite, le chiacchierate infinite, le risate, le giornate in oratorio, i viaggi in autobus e poi in treno per andare al Liceo e all’Università? Come posso riunire tutti questi elementi in poche pagine e organizzarli secondo un ordine logico, in modo che i miei lettori capiscano la storia? Non posso pretendere di essere ricordato, se non sono neppure compreso. Inizia dunque per me un’impresa difficile e non so quante forze essa potrà sottrarmi. Ma sono determinato. Devo scrivere e non posso lasciarmi scoraggiare proprio ora.

Che notte! Sembra non dovere finire più. Fisso un po’ il soffitto, un po’ le righe appena scritte. Penso. Spengo la luce e mi corico. ‘E il momento di iniziare.

***

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