
Neve bastarda
Cammini per le vie del centro e i tuoi passi non fanno rumore.
È notte. Mattina presto, forse, ma a te piace definirla notte.
Cammini curvo, la testa incassata nelle spalle, le mani ben affondate nelle tasche del tuo giaccone, un cappello ben calato in fronte a coprirti i capelli lunghi, malamente legati. Hai una sigaretta stretta tra le labbra livide, oramai è quasi un mozzicone.
Fa freddo.
È buio. Non c’è nessuno per le strade, non si odono rumori che potrebbero turbare la quiete del quadretto invernale nel quale sei immerso, niente se non i rumori della natura, o delle tubature, dei cavi di corrente elettrica. E i tuoi passi. Che, comunque, non fanno rumore.
Nevica. Non i fiocchi lenti e calmi di una bella nevicata, no, fiocchetti piccoli, bagnati e pungenti, che turbinano nel vento senza eleganza o magia alcuna, e che ti feriscono quando colpiscono i pochi centimetri di pelle scoperta che esponi, come piccoli proiettili ghiacciati.
“Che neve bastarda. Neve di città” aveva commentato una volta tuo padre a bassa voce, un pomeriggio che il tempo era simile ad adesso. Tu avevi sette anni allora, ed eri seduto sul sedile posteriore dell’auto succhiando una caramella, secca, probabilmente vecchia di secoli, trovata per caso sul tappetino poggiapiedi miracolosamente ancora incartata. Quel ricordo ti è rimasto impresso, e ora per te questa neve è la neve bastarda.
Della sigaretta non rimane che il filtro. Ti bruci le labbra, soffochi un’imprecazione tra i denti.
Per fortuna c’è un cestino a due passi.
Ti apparti sotto un balcone, tiri fuori le mani dalle tasche e porca puttana se fa freddo, subito rimpiangi il calore confortevole che si era creato. I tuoi jeans scuri sono come ghiacciati attorno alle tue gambe magre, irrigiditi, dovrebbero scaldarti ma sembra che aumentino la sensazione di gelo.
Tiri fuori tabacco, cartine e filtro e con le punte delle dita già viola te ne giri un’altra, fai una fatica immane, stai tremando e stare fermo sul posto non ti aiuta.
Ci sei, l’hai chiusa. Che farai ora? La accenderai, te la fumerai sotto questo balcone di Via Garibaldi tremando come un pulcino bagnato? No, rifletti mentre la osservi (e ti complimenti con te stesso: è davvero venuta bene nonostante il tremore), ora no, magari dopo. Te la infili dietro un’orecchio, affondi nuovamente le mani nelle tasche e ricominci a camminare.
Piazza Castello è vuota; lì ti fermi.
Sono le 02:37. Non si sente volare una mosca. L’unico suono è quello della neve portata dal vento. Non c’è nessuno. E come potrebbe essere altrimenti? Il coprifuoco è scattato più di quattro ore fa. In un venerdì sera qualunque forse troveresti qualcuno nella piazza più famosa di Torino, anche alle 02:37, ma non oggi, non con una pandemia globale in corso. Oggi ci sono solo le facciate degli edifici, alti, belli, freddi, e la neve, e le fontane spente.
E tu.
Solo.
In piedi.
Un po’ storto.
Immobile.
Sei bello, sembri parte del paesaggio, sembri inserirti perfettamente in questa cartolina in bianco e nero. La piazza è tutta tua.
Tua madre dorme profondamente, stroncata dal doppio turno in ospedale e dai farmaci che prende per cercare di dimenticare le brutture che vede ogni giorno. No, non ti devi preoccupare, non si è svegliata quando hai aperto la porta con quelle dannate chiavi che fanno così rumore, non si è svegliata quando l’hai richiusa dietro di te (sei stato bravo, hai usato cautela), e non si sveglierà ancora per molte ore.
Per strada non hai incrociato controlli, hai camminato evitando accuratamente le pozze di luce proiettate dai lampioni sull’asfalto bagnato, nascosto nel buio, accolto tra le braccia della notte, come un bambino, come un segreto, al sicuro nell’abbraccio confortevole di questa neve bastarda.
Sei invisibile. Sei silenzioso. Sei un fantasma.
Nessuno saprà mai che sei stato qui stanotte, eppure ci sei, e la piazza è tutta tua.
Il mondo è tutto tuo.
Alzi la testa, non hai più freddo. Ci sei solo tu. È come se fossi rimasto solo tu, unico sulla faccia della terra. E ti viene da sorridere. Sorridi.
Ti senti un re.
Il re di tutta la città. Il re della notte. L’unico ancora sveglio. L’unico ancora in piedi. L’unico ancora vivo.
Ridi.
In silenzio, per non spezzare l’incanto, ma ridi.
Resti immobile. Un re con la corona di neve, in una città in bianco e nero.
Lentamente prendi la sigaretta, la accendi, e la fiamma è l’unica nota di colore nel paesaggio.
Ne assapori con lentezza ogni tiro. Il fumo ti entra nei polmoni, scaldandoti dall’interno, ed esce dalla tua bocca in nuvolette bianche lasciandoti in regalo il gusto del tabacco.
Ti guardi intorno: il tuo regno è grande, e bello incorniciato dalla neve.
Torino è una città che è più bella quando fa freddo.
Un brivido impercettibile torna a scuoterti e ti ricorda che non sei un fantasma, sei umano, non sei un re, sei solo un ragazzo con un giaccone e un paio di jeans che si rifiutano di fare il loro sporco dovere.
Hai finito anche questa sigaretta.
La lasci cadere. Ti sembra di sentirla sfrigolare mentre si spegne nella pozzanghera che si è formata ai tuoi piedi.
Torna a casa, Alessandro. È tardi, nevica, e il mondo è troppo buio per stare da soli senza sentire un po’ di angoscia. Torna a casa, Alessandro, fa freddo. Incamminati, ora, col tuo passo svelto: domani nessuno saprà che sei stato qui.
Tornerai a casa e nessuno ti vedrà, nessuno ti sentirà, nessuno si sveglierà. Passerà la notte e verrà il mattino, e tu tornerai ad essere solo Alessandro. E nessuno saprà che, anche solo per qualche minuto, tu sei stato re. Sei stato il solo. E va bene così.
Ma io, io lo so, io che sono la piazza, io che sono la pietra di questo selciato e la magia di questo luogo, io ti ho visto, unico e solo, e ti ho permesso di essere re. E ora ti permetto di tornare ad essere te. E ti guardo andar via.
Torna a casa, Alessandro, il mondo è freddo e buio, e la notte è troppo scura per permettersi di essere soli.


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