Articolo,  Parole d'autore

La “Consolatio ad Marciam” di Seneca

È deceduto tuo figlio: cioè ha toccato quel traguardo verso il quale corrono quelli che credi frutti più felici del tuo parto. A questa meta si dirige con passo ineguale tutta codesta folla che litiga nel foro, ozia nei teatri, prega nei templi: le cose che apprezzi e le cose che disprezzi saranno un solo mucchio di cenere. […]
Cos’è l’uomo? Un vaso che va in pezzi a ogni scossa e a ogni urto. Non ci vuole una gran tempesta per distruggerti: dovunque cozzi, t’infrangi.

– Seneca, Consolatio ad Marciam, 11, 2-3.

L’autore

Lucio Anneo Seneca nacque a Cordova, capitale della Betica (provincia romana situata nell’attuale Spagna), nel 4 a.C., sotto il principato augusteo. Fu un autore molto prolifico e poliedrico: tragedie, trattati,  opere filosofiche, epistuole e molti altri.

La sua vita pubblica e politica fu molto travagliata: fu condannato a morte da Caligola nel 39, ma successivamente graziato dall’intervento di un’amante dello stesso imperatore; poi, due anni dopo, Claudio lo condannò all’esilio in Corsica, accusandolo di adulterio, dove rimase fino al 49, quando la seconda moglie di Claudio, Agrippina, lo fece ritornare a Roma per diventare tutore e precettore del futuro imperatore Nerone. Guidò e consigliò Nerone nei suoi primi cinque anni di governo (il cosiddetto “quinquennio di buon governo” o “quinquennio felice”, dal 54 al 59), in cui l’imperatore governò saggiamente, ma col tempo i rapporti fra Nerone ed il suo precettore si inasprirono, il che portò il filosofo a ritirarsi a vita privata. Nel 65 l’imperatore accusò Seneca di aver preso parte ad una congiura contro di lui (la famosa congiura dei Pisoni, che prende il nome dal presunto politico che la organizzò, Gaio Calpurnio Pisone), sebbene non ci fossero e non ci siano tuttora prove inconfutabili della sua effettiva partecipazione: venne dunque costretto al suicidio.

Così Tacito descrive la morte del filosofo negli Annales, 15, 64:

Seneca intanto, protraendosi la vita in un lento avvicinarsi della morte, prega Anneo Stazio, da tempo suo amico provato e competente nell’arte medica, di somministrargli quel veleno, già pronto da molto, con cui si facevano morire ad Atene le persone condannate da sentenza popolare [ossia la cicuta, con cui venne ucciso anche Socrate nel 399 a.C.]. Avutolo, lo bevve, ma senza effetto, per essere già fredde le membra e insensibile il corpo all’azione del veleno. Da ultimo, entrò in una vasca d’acqua calda, ne asperse gli schiavi più vicini e aggiunse che, con quel liquido, libava a Giove liberatore. Portato poi in un bagno caldissimo, spirò a causa del vapore e venne cremato senza cerimonia alcuna. Così aveva già indicato nel suo testamento, quando, nel pieno della ricchezza e del potere, volgeva il pensiero al momento della fine.

Il genere della consolatio

Il genere della consolatio (dal latino consolatio, ossia “consolazione”, “conforto”) è un particolare genere di prosa, che tocca sia la prosa filosofica sia l’oratoria epidittica (genere di eloquenza usata dagli oratori greci nelle pubbliche cerimonie), originario della Grecia.

Nacque dalle orazioni funebri di tradizione aristocratica, evoluzioni dell’arcaico pianto rituale greco, detto θρῆνος (threnos): erano dei veri e propri discorsi tenuti in occasione della morte di membri altolocati della società, il cui scopo era quello di esaltare la figura del defunto e consolare del lutto i familiari e gli amici. Questa tipologia di discorso commemorativo la troviamo anche nelle usanze aristocratiche romane, fin dalla nascita della repubblica: la laudatio funebris (ossia “elogio funebre”) era pronunciata dal capo della gens (“stirpe”) al cospetto dell’intera cittadinanza per consolidare la memoria familiare.

Questa consuetudine si intrecciò successivamente con la riflessione filosofica (soprattutto in epoca ellenistica), che si proponeva di alleggerire nell’uomo il timore della morte, in modo tale da sottrarlo alla sua presa: la civiltà grecolatina, infatti, ebbe soprattutto fede nella ratio (ragione) e nell’oratio (parola), di conseguenza la filosofia e la retorica divennero porti sicuri in cui approdare. La consolatio può essere definita, dunque, come una breve prosa filosofica, in cui si propone una riflessione sulla morte.

Di Seneca ci sono giunte tre consolationes: Consolatio ad Marciam, Consolatio ad Helviam matrem e Consolatio ad Polybium.

La Consolatio ad Marciam

Della Consolatio ad Marciam la cronologia è piuttosto incerta: gli studiosi sono d’accordo nel ritenere che il termine post quem sia il 37 d.C., quindi l’opera è stata composta dopo quella data. È dedicata a Marcia, figlia dello storico Cremuzio Cordo, per confortarla nella dolorosa perdita di suo figlio Metilio.

È probabile che questo scritto abbia un sottofondo politico: per prima cosa, fu prodotto dopo un paio di anni dalla morte del piccolo Metilio, e da ciò si può dedurre che il motivo primario della composizione non sia la sua scomparsa. In secondo luogo, la figura del nonno materno di Metilio è molto presente e, a volte, addirittura ingombrante: Cremuzio Cordo fu accusato ingiustamente di crimen maiestatis (ossia di minaccia e/o offesa all’imperatore) a causa dei contrasti sorti con il prefetto del pretorio dell’imperatore Tiberio, Seiano, e si lasciò morire di fame, sapendo che sarebbe stato condannato. Seneca, riconoscendo nella vicenda dello storico la propria e vedendo in lui un uomo che ha affrontato eroicamente la morte piuttosto che cedere al dispotismo imperiale, gli affida un ruolo molto rilevante nella consolatio: lo troviamo all’inizio e alla fine dell’opera, e rivela al nipotino defunto i segreti dell’universo.

Il vero protagonista, pertanto, non è il dolore di una madre per la morte del figlioletto, ma è il ricordo della vita di un padre, che per Seneca esemplifica gli antichi valori romani.

Per il filosofo la morte è una liberazione, sia perché è la fine sia perché è l’unica certezza che un uomo ha rispetto al suo futuro: l’uomo, infatti, raggiunge la tranquillità solo quando sfiora le cose eterne, ossia il cosmo e il sepolcro. Bisogna accettare la morte e trovare la serenità nell’osservazione del cosmo. Nell’opera, inoltre, si svela una concezione pessimistica dell’esistenza, in parte dovuta al fatto che, per consolare i sopravvissuti, fosse necessario screditare la vita stessa.

Ho scelto questo passo perché ritengo che contenga alcuni precetti fondamentali della riflessione senecana, che possiamo ritrovare anche in altri suoi scritti filosofico-morali e nelle epistole: la morte come unica certezza e la necessità di accettarla; la ragione come unico mezzo per il saggio di affrontare la vita e raggiungere l’imperturbabilità dell’animo; l’inserimento di domande e obiezioni poste da un ipotetico lettore, le quali rendono l’opera quasi “dialogica” in certi punti.

Seneca si rivolge a Marcia e cerca di farle razionalizzare un dolore che è impossibile da accettare, tantomeno da superare: tenta di assestare il cuore nel petto, di sistemarlo negli scaffali costali affinché non precipiti e non si rompa in mille pezzi e affinché non si gonfi di tristezza e disperazione fino ad esplodere.

Il piccolo Metilio è più libero e sereno di qualsiasi uomo vivente, dal momento che la vita non può più sfiorarlo, tramortirlo, accarezzarlo, ferirlo: infatti Seneca afferma che “a nessuno è toccato di nascere senza pagarne il fio”. E, come osserva acutamente Traina: 

la nascita è una colpa che si espia. Con la vita, non con la morte. Così Seneca, erede di Crantore (filosofo greco vissuto fra il IV e III secolo a.C.) e contemporaneo di San Paolo, consolava gli uomini, non di morire, ma di vivere.

*L’immagine di copertina è Mosaico memento mori, I secolo d.C., Pompei.

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