
Ideare, stendere, verseggiare
Vittorio Alfieri è senza alcun dubbio uno dei più importanti e influenti scrittori italiani del XVIII secolo. Il suo forte sentire e il suo titanismo anticipano in modo incredibilmente personale ma contemporaneamente universale ciò che un secolo, anzi, meno di un secolo dopo diverrà il Romanticismo; e la sua paradossale avversione, date le sue nobili origini, per ogni tipo di regime monarchico, da lui definito tirannide, è un topos letterario (e non solo) che ha successo ancora oggi.
Ma appunto, come anticipato, questo suo spirito quasi rivoluzionario può parere paradossale considerando le forme classiche a cui aderisce l’Astigiano, in particolare nella sua produzione tragica, punto focale di questo articolo. D’altronde, come si può scrivere un’opera sovversiva contro il sistema parlando la sua stessa lingua? Come si può denunciare un’ingiustizia tirannica conformandosi ai canoni aristotelici che, innocenti nella loro sottomissione al potere, soddisfano gli ideali di bellezza superficiali dei sovrani che, senza comprensione alcuna del loro valore profondo, ignorano la «nobile semplicità e la quieta grandezza» teorizzata da Winckelmann?
A questo dilemma, Alfieri trova una soluzione tutta personale e geniale, un metodo di lavoro che, parafrasando Marx, nobilita sia l’uomo che il suo lavoro. Nella Vita, opera autobiografica pubblicata postuma nel 1806, nel quarto capitolo della quarta epoca, Virilità, lo scrittore espone il suo metodo di scrittura delle tragedie.
E qui per l’intelligenza del lettore mi conviene spiegare queste mie parole di cui mi vo servendo sì spesso, ideare, stendere, e verseggiare.
– Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, Epoca IV, capitolo 4
Fin da subito si ritrova un importante parallelismo numerologico: come per le tre unità aristoteliche di tempo, luogo e azione, Alfieri utilizza una tripartizione che gli permette sì di sezionare il lavoro in parti distinte, ma anche, come vedremo in seguito, di mantenere una coesione fondamentale tra
questi tre “respiri”, come da ora li chiameremo. Questi tre momenti a loro volta fanno parte del momento di “scrittura” della tragedia.
1. Ideare
Con l’ideare, Alfieri si riferisce non tanto al processo mentale del costruire e scegliere il tema e il setting della tragedia, ma all’organizzazione formale in atti e scene, che cosa accade in essi, il numero dei personaggi, spesso molto pochi (si veda Antigone, in cui ve ne sono 4 e le guardie mute non sono citate nel frontespizio), e che cosa diranno e faranno. Insomma, tutto ciò che riguarda la struttura puramente teatrale dell’opera.
Questo rivela un come nella mente dell’autore il concetto di ideare non sia qualcosa di puramente astratto come il termine lascerebbe intendere, ma punto di partenza concreto sia per la scrittura della tragedia sia per la sua messa in scena, le fondamenta strutturali del processo creativo dello scrittore e del regista che poi la farà vivere sul palco.
Se dovessimo fare un paragone tra il metodo di scrittura alfieriano e l’allestimento di uno spettacolo, questo respiro equivarrebbe al momento di analisi generale del testo teatrale e all’analisi individuale dell’attore del suo personaggio atta alla giusta immedesimazione.
2. Stendere
Alfieri poi continua riferendosi allo stendere come la prima vera scrittura dell’opera, basandosi sugli appunti presi nel momento precedente per scrivere le scene in prosa una per una, scrivendo i dialoghi e lasciando ogni idea impressa sul foglio senza scartarne nessuna. Questa specie di brainstorming può essere definita paradossalmente come ideazione appunto, sebbene si tratti di un momento successivo all’ideare. La struttura datagli da quel respiro precedente però, gli permette di avere una idea chiara dell’aspetto generale della tragedia già fin da subito, e gli impedisce di perdersi in pensieri troppo contorti o idee artificiose. Questo rende le idee che scrive in questo respiro relativamente chiare e ordinate e che così non portano alcun disordine, poiché la struttura di base non cambia in base ad esse, e quelle idee che non aggradano allo scrittore verranno eliminate in seguito, come vedremo.
Dato l’aspetto molto concreto e semplice di questo respiro, in teatro si può paragonare ai primi tentativi di recitazione delle scene e alle eventuali improvvisazioni che arricchirebbero il contenuto dell’opera.
3. Verseggiare
Questo respiro è certamente quello più “poetico” dei tre, poiché implica la conversione delle scene in prosa scritte nello “stendere” in endecasillabi sciolti, verso prediletto da Alfieri. Questo metro nella sua musicalità si accompagna tuttavia bene con un ritmo spesso frammentato di cui è primo esempio questo scambio di battute tra Antigone e Creonte nella prima scena del quarto atto de l’Antigone.
C: Scegliesti?
A: Ho scelto.
C: Emon?
A: Morte.
C: L’avrai.– Vittorio Alfieri, Antigone, IV, 1
Questa versificazione avviene spesso diverso tempo dopo lo “stendere”, ed è accompagnato da un’analisi a mente fredda delle idee abbozzate nel respiro precedente al fine di coglierne le migliori e estirpare le meno convincenti. È un lavoro di curatela che precede la vera e propria correzione ortografica e grammaticale che dimostra come Alfieri sia in un certo modo il primissimo critico e commentatore di se stesso. Questo respiro in chiave teatrale potrebbe essere interpretato come la cura delle azioni sceniche, dello spazio e degli oggetti di scena, le entrate e le uscite. Tutto ciò che può essere in qualche modo curato e corretto che, in un contesto non legato alla scrittura, gli attori possono comunicare col linguaggio del corpo, non potendo dividere un braccio in undici sillabe.
Finora abbiamo parlato di questi respiri singolarmente, come se fossero unità distinte. In verità nella mente dell’autore questi tempi fanno comunque parte di un unico momento di scrittura della
tragedia, poiché ogni respiro è inevitabilmente complementare con gli altri due, al punto che Alfieri dice di non avere alcun problema nel “verseggiare” e nel curare se non ci sono stati intoppi negli altri due momenti. Nemmeno il passare del tempo spezza questa unicità del momento della scrittura,
anzi, come abbiamo visto, è parte integrante del “verseggiare”. Il famoso “Forte sentire” dell’Astigiano lo aiuta in questo:
Ed in fatti, dopo un certo intervallo, quanto bastasse a non più ricordarmi affatto di quella prima distribuzione di scene, se io, ripreso in mano quel foglio, alla descrizione di ciascuna scena mi sentiva repentinamente affollarmisi al cuore e alla mente un tumulto di pensieri e di affetti che per così dire a viva forza mi spingessero a scrivere, io tosto riceveva quella prima sceneggiatura per buona, e cavata dai visceri del soggetto. Se non mi si ridestava quell’entusiasmo, pari e maggiore di quando l’avea ideata, io la cangiava od ardeva.
– Vittorio Alfieri, Vita scritta da esso, Epoca IV, capitolo 4
È il sentimento che l’autore prova mentre scrive che porta avanti la spinta creativa: Alfieri mette alla prova la sua sensibilità abbandonando la tragedia in modo da attenebrare quelle emozioni
suscitate dalla scrittura, per poi riprenderla tempo dopo e ricercare quelle stesse sensazioni. Solo se esse sono presenti può Alfieri considerarsi soddisfatto, altrimenti con un gesto teatrale e tipico per il suo personaggio la getta alle fiamme. Il forte sentire è principio creatore di ogni tragedia alfieriana e fonte della sua creatività.
Un corpo neoclassico dallo spirito romantico, ecco come si possono considerare le tragedie di Vittorio Alfieri, un uomo dallo spirito libero che ha usato quei limiti datigli dai canoni classici non come rigido dogma da rispettare a prescindere, ma come impalcatura per costruire grandiosi edifici tragici.
* L’immagine in copertina è Alfieri e Albany, di François-Xavier Fabre, 1796, olio su tela.


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