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Parole da guardare: l’ekphrasis e le sue origini

La pittura è poesia silenziosa, e la poesia è pittura che parla.

Simeone di Ceo

Basta questa massima, attribuita da Plutarco a Simonide di Ceo, per inquadrare la storia della riflessione retorica e filosofica racchiusa nel concetto di ekphrasis. Una pratica forse sconosciuta ai non addetti ai lavori, o che viene istintivamente associata a compiaciuti giochi letterari, ma dietro cui si nasconde un punto di incontro e di rapporto dialettico fra visualità e scrittura.

Nel suo significato attuale, l’ekphrasis è una descrizione efficace di un’opera d’arte, sul modello del famoso episodio dello scudo di Achille del canto XVIII dell’Iliade; uno degli esempi moderni più celebri è il componimento Ode on a Grecian Urn dell’inglese John Keats. Le prime attestazioni di un uso tecnico della parola sono individuabili all’interno di manuali greci di retorica chiamati progymnasmata, raccolte di esercizi destinati a studenti che volevano perfezionarsi nell’arte oratoria e nella creazione di un discorso completo e convincente. Di questi scritti ci rimangono solo quattro esemplari, di quattro diversi autori: Elio Teone (I sec. d.C.), Ermogene di Tarso (II sec.), Aftonio di Antiochia (IV sec.) e Nicolao di Mira (V sec.). La struttura di tali testi è sostanzialmente identica: un lungo elenco di strumenti retorici e di relative consegne da proporre agli alunni. Fra questi, oltre ad esempio alla narrazione (diegema), l’aneddoto (chreia), il mito, la sentenza (gnome), anche la descrizione, ovvero l’ekphrasis. Non si tratta, però, di una descrizione qualunque: secondo la definizione di Teone, che ritorna quasi identica negli altri manuali, «l’ekphrasis è un discorso descrittivo che porta l’oggetto a mostrarsi vividamente davanti agli occhi» (ἔκφρασις ἐστι λόγος περιηγηματικός ἐναργῶς ὑπ’ ὄψιν ἄγων τὸ δηλούμενον).

Possiamo ricavarne alcune indicazioni fondamentali. Innanzitutto, bisogna notare che il termine ha a questa altezza cronologica un significato più generico rispetto a quello attuale. Teone e i suoi colleghi, infatti, non mancano di specificare che tali descrizioni possono avere come oggetti esseri inanimati, animali, uomini, paesaggi, dei, battaglie. In seconda battuta, la collocazione stessa dell’ekphrasis all’interno dei progymnasmata ci rivela la sua appartenenza al dominio della retorica e dell’oralità, prima ancora che della letteratura e dello scritto: la capacità di commuovere e di far immedesimare l’uditorio nella vicenda, attraverso tratteggi bozzettistici di una certa scena o personaggio, è indispensabile per il successo di un’orazione.

L’aspetto più rilevante però è nei singoli termini. Innanzitutto, non è casuale la scelta dell’avverbio enargos, “vividamente”. Il suo valore di tecnicismo è dimostrato non solo, in questi stessi testi, dalla menzione dell’enargheia, assieme alla sapheneia (“chiarezza”), come virtù principale dell’ekphrasis, ma anche dall’attenzione che riservano a questa virtù tutti gli altri trattatisti antichi. Del resto, enargheia è un concetto dalla lunga storia filosofica e critico-letteraria: l’aggettivo enarges è utilizzato fin dalle prime opere greche scritte e compare – nella sua comune accezione di “chiaro”, “vivido”, “manifesto alla vista” – anche nel Fedone di Platone (83c) e nella Poetica di Aristotele (ad esempio, in 1462a17f). È però con Epicuro che la parola ottiene per la prima volta il suo statuto scientifico. Nella teoria gnoseologica del maestro del Giardino, infatti, l’enárgheia è la “vista chiara”, conseguenza di un’immediata apprensione empirica e requisito indispensabile per una conoscenza certa a partire dalle immagini sensibili che si formano nella nostra mente, le phantasiai. Questa prospettiva materialistica della conoscenza, che ha radici aristoteliche ed è condivisa anche dallo Stoicismo, non può essere ignorata per comprendere fino in fondo la portata dell’attribuzione all’ekphrasis delle stesse facoltà di una percezione reale: se infatti le immagini si formano solo a partire da flussi di atomi che partono da un oggetto esterno e colpiscono i nostri organi sensoriali e sono dunque concrete, non virtuali, l’ekphrasis ha la straordinaria capacità di convincere l’uditore o il lettore di trovarsi di fronte a ciò che viene descritto e di riceverne fisicamente l’immagine con i sensi.

Certo, si tratta di un’illusione, un artificio, e gli antichi ne erano perfettamente consapevoli.  Nell’anonimo trattato Del Sublime, si parla della phantasia retorica come di uno strumento che “schiavizza” (douloutai) l’ascoltatore, distogliendolo da un’analisi critica dei contenuti e suscitando una profonda adesione emotiva, dovuta alla vividezza della scena che prende corpo nella sua mente. È soprattutto quando arriva a esporre gli “argomenti fattuali” del suo discorso che l’oratore può e deve ricorrere a questo espediente, per trasformare una fredda cronaca in rappresentazione scenica e patetica: l’emozione vince sempre sulla dimostrazione analitica ed è la più potente arma per veicolare messaggi. Il destinatario viene “colpito” (ekplessein), non sottopone più le parole al vaglio della ragione, è pura passività. Pur non ricercando la persuasività, anche la poesia, insieme alla pittura, si realizza nell’eidolopoiein, nella creazione di immagini. Torna il parallelo della sentenza simonidea, che Plutarco commenta, nei suoi Moralia, e prende come spunto per l’analisi della vis iconica nella storiografia. Può sembrare sorprendente, ma anche nel genere più estraneo oggi dalla dimensione estetica della letteratura c’è spazio per l’ekphrasis (non bisogna dimenticare la definizione antica di storiografia come opus oratorium maxime), tanto più che Plutarco ne elegge il più illustre e autorevole rappresentante, ovvero Tucidide, l’iniziatore di quell’approccio scientifico che sarà la base dell’evoluzione verso la disciplina moderna, come campione di enargeia, capace di rendere la narrazione “come un quadro”, e di utilizzare caratteri ed emozioni per far immergere il lettore nella vicenda: se pensiamo agli innumerevoli discorsi, retoricamente calibrati, cui l’ateniese fa affidamento, la scelta di Plutarco non sembra più così peregrina.

Nel mondo latino, sono soprattutto Cicerone e Quintiliano a occuparsi di questi concetti, dimostrando una solida conoscenza della tradizione critica greca precedente e parallela. Nell’Institutio oratoria (6.2.29-32), Quintiliano rende phantasia con visio e insiste sulla forza persuasiva quasi “magica” di una tale rappresentazione: chi riesce a creare una visio è in adfectibus potentissimus, in grado di governare le emozioni altrui e conquistarne la fiducia. Da queste vivide immagini scaturisce quindi l’enargeia, che si distingue da quella che autore definisce perspicuitas, ovvero mera chiarezza espositiva: mentre quest’ultima si lascia comprendere solo dall’udito, quella invece si mostra agli occhi della mente (8.3.61-62). Un’altra espressione che infatti identifica questo processo nell’Institutio è proprio sub oculos subiectio (9.2.40-43), quasi perfettamente sovrapponibile del resto alla definizione di Teone e dei progymnasmata. I termini con cui Quintiliano traduce enargeia, ovvero inlustratio ed evidentia, sono, per stessa ammissione dell’autore, ripresi da Cicerone, che ad esempio nel De partibus orationum parla dell’inlustris oratio come quel momento del discorso in cui i fatti sono presentati “quasi davanti agli occhi” (6.20). Negli stessi testi di Cicerone e di Quintiliano, a cui si può aggiungere la Rethorica ad Herennium, leggiamo anche alcune indicazioni su come ottenere questo risultato: indispensabile certo è la scelta di parole lessicalmente pregnanti, “mimetiche”, che diano l’illusione dell’azione, ma è interessante soprattutto la necessità da una parte di non tralasciare ciò che è avvenuto prima, dopo e durante l’evento narrato, ovvero le sue (in senso letterale) circostanze e conseguenze, dall’altra di descrivere non universa, sed per partis (Inst. 9.2.40), cioè non con delle valutazioni generiche e inespressive, quasi macchie di colore troppo diluite gettate su un foglio, bensì mettendo a fuoco un lembo della veste, un tratto del volto, un gesto degno di nota. Ne deriva dunque un effetto simile, non a caso, a quello cinematografico, un continuum percettivo dato dalla somma di più istanti, che è di fatto l’unico modo per restituire la potenza conoscitiva, universale e particolare al tempo stesso, di uno sguardo.

Caratteristiche che si possono ritrovare nel già citato passo della fabbricazione delle armi di Achille, nel canto XVIII dell’Iliade, considerato il primo esempio di ekphrasis e punto di partenza del progressivo affermarsi dell’opera d’arte come oggetto privilegiato e topico del procedimento ecfrastico. Teti è corsa dal fabbro degli dèi, Efesto, per chiedergli di forgiare un nuovo equipaggiamento per il figlio, dopo che il precedente era stato sottratto al cadavere dello sventurato Patroclo da Ettore. Subito il dio zoppo si mette al lavoro e, accompagnato dal torrido respiro dei mantici e dal clangore del maglio, lui che è il più brutto fra gli abitanti dell’Olimpo, infonde nel caos del metallo una sovrumana bellezza: evidente è il parallelismo con l’aedo, che si identifica e si sovrappone al personaggio cui sta dando vita con il suo canto. Lo sguardo del poeta si concentra quindi sullo scudo; la rappresentazione non è statica, inerte, ma segue dinamicamente il processo creativo, in un susseguirsi di scene che davvero sembrano passare attraverso una cinepresa. Quasi senza rendercene conto, siamo condotti di fronte a un autentico miracolo: le figure si animano, l’immagine si fa azione. Da una parte, una città in pace, nozze e cori di festa, le grida di un processo saldamente governato dalla saggezza degli anziani; dall’altra, una città in guerra, mura circondate da un esercito avido e spietato, un agguato nella notte e infine lo scontro, spettacolare messe di morte. È già presente, straordinaria, la volontà di riflettere sul sovrapporsi dei piani narrativi e sulla ricezione del poema stesso da parte degli ascoltatori, che in queste fugaci vicende rivedono i valori della concordia e della giustizia alla base delle loro comunità e allo stesso tempo la minaccia del conflitto, che trova nel dramma di Troia la sua più estrema e forse inevitabile realizzazione. E ancora dai colpi di martello emergono campi da arare, la mietitura del grano, la vendemmia, mandrie attaccate dai leoni, danze e giochi. Spesso Omero ci ricorda la natura di questo inganno: la vigna è d’oro, i pali da cui pendono i grappoli d’argento, tutto intorno vi è un fossato di smalto e una siepe di stagno (vv.561-565); la danza dei giovani è paragonata mirabilmente allo scorrere della ruota del tornio (v. 600 sg.). L’ascoltatore sperimenta dunque coinvolgimento per l’abilità della finzione letteraria e allo stesso tempo un certo distacco dovuto alla consapevolezza degli strumenti retorici all’opera. Questo tipo di insoddisfazione è indizio però della buona riuscita del meccanismo ecfrastico: le parole infatti sono un symbolon, una parte dell’intero, le vestigia di un’assenza, ovvero l’immagine e ancora più in alto la realtà, che il linguaggio non può colmare del tutto.

L’ekphrasis contiene quindi fin dalle sue origini un enigma estetico. La poesia rincorre l’immagine, senza mai raggiungerla, ma attraverso i suoi sforzi comunque la illumina e rivendica le sue proprie potenzialità iconiche. Le Metamorfosi di Ovidio saranno uno degli esiti più alti di questo percorso, con il loro moltiplicarsi senza requie di narrazioni, luoghi e personaggi, nel tentativo di cogliere in qualche modo il flusso sfuggente e impetuoso del cambiamento.

Per approfondire:

*L’immagine in copertina è Albrecht Dürer, Studio di cuscini, 1493, penna e inchiostro marrone.

 

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