
Lamento funebre o poesia di conquista? Alcune riflessioni sulla poesia dell’esilio di Ovidio
Nell’8 d.C. Ovidio fu condannato da Augusto alla relegatio presso Tomi, una città sul Mar Nero, situata nell’attuale Romania. Tale provvedimento, a differenza dell’esilio, non prevedeva per colui che ne era colpito né la confisca dei beni né la perdita definitiva della cittadinanza romana.
Nel II libro dei Tristia, la lunga elegia autobiografica di autodifesa rivolta allo stesso Augusto, il poeta ricorda come cause della propria punizione un carmen, composto anni prima, e un non meglio precisato error. Se Ovidio tace completamente la natura dell’error e riguardo ad esso sono state formulate svariate ipotesi, tra le quali gode di una particolare fortuna quella che identifica tale errore con un coinvolgimento del poeta in uno scandalo di corte, forse una congiura, in cui probabilmente sarebbe stata implicata anche la nipote di Augusto Giulia Minore, è invece chiaro che il carmen cui Ovidio fa riferimento sia la propria Ars amatoria. Nelle opere dell’esilio l’autore torna più volte a riflettere sulla natura di questo poema erotico-didascalico, che non viene condannato, ma difeso appassionatamente come un’opera scherzosa composta da un giovane che conduceva una vita guidata da principi morali ben diversi da quelli insegnati nell’opera.
La poesia è dunque una delle cause della relegatio, ma, nonostante questo, anche da Tomi Ovidio non rinuncia a comporre versi. Egli accantona l’idea di concludere i Fasti e di completare l’ultima rifinitura del suo poema più maturo, le Metamorfosi, considerato incompiuto, dato alle fiamme prima della
partenza – secondo quanto riferisce lo stesso Ovidio, e nemmeno citato nell’elegia autobiografica (trist. 4, 10). La nuova poesia si presenta diversa dalla precedente, come afferma lo stesso autore al termine del III libro delle Epistulae ex Ponto:
Da veniam scriptis quorum non gloria nobis
causa sed utilitas officiumque fuit.Mostrati benigno verso questi miei scritti, la ragione dei quali non fu la mia gloria, ma l’utilità ed il dovere verso gli amici.
Ovidio, Epistulae ex Ponto, III, 9
Nel chiedere a Bruto di guardare con favore all’opera appena terminata, l’autore afferma di averla composta non per ottenere gloria ma per l’utilità e i doveri sociali. Si tratta di
un’affermazione spiazzante: tradizionalmente la poesia era considerata utile se capace di conferire fama immortale al proprio autore e all’oggetto del canto. I poeti si impegnavano a costruire monumenti poetici che durassero per sempre e che assicurassero ad essi e alle proprie opere immortalità presso i posteri. Ovidio, invece, rovesciando completamente il concetto, vuole far credere ai suoi lettori che i componimenti dell’esilio e in particolare le Epistulae ex Ponto, siano state dettate soltanto da una finalità pratica e utilitaristica: egli vuole tornare a Roma o, se questo non è possibile, almeno ottenere di essere trasferito in un luogo di confino più vicino alla capitale ed esclusivamente per questo scrive lettere a vari personaggi che considera influenti, affinché essi possano intercedere per lui e portare le sue ragioni alla presenza dell’imperatore.
E’ particolarmente interessante evidenziare con quali tecniche letterarie Ovidio intenda perseguire il suo obiettivo pratico di ottenere il perdono del principe e rientrare nella capitale. In
apparenza la poesia dell’esilio si dovrebbe presentare come opposta in tutto e per tutto alla produzione erotica giovanile: se quest’ultima è il carmen che ha danneggiato per sempre il poeta e ha contribuito alla sua condanna in esilio, i componimenti di Tomi sono pensati proprio per rimediare i danni provocati dalla poesia precedente e ricostruire il rapporto di Ovidio con il suo pubblico, ora drammaticamente interrotto. In particolare – come afferma lo stesso autore nella prima elegia delle Epistulae ex Ponto – i tre libri di epistole sono appositamente pensati per occupare lo spazio lasciato vuoto nelle biblioteche dei romani dai tre libri dell’Ars amatoria. Come
la poesia ha causato la rovina dell’autore, così dovrà essere capace di porvi rimedio e ricostruire il rapporto di Ovidio con il pubblico drasticamente interrotto dall’esilio. Per ottenere il suo obiettivo il poeta si sarebbe potuto impegnare in nuovo genere di poesia, magari più adatto ai gusti dell’imperatore e della classe dirigente romana, in modo da potersi mostrare il più facilmente possibile cambiato ai loro occhi. Questo, dunque, ci aspetteremmo: una poesia il più diversa possibile dall’Ars amatoria nei contenuti e anche nelle forme. I fatti, tuttavia, rivelano tutt’altro e la poesia dell’esilio si presenta, almeno formalmente, come piuttosto simile alla produzione erotica
giovanile: si tratta nuovamente di componimenti in distici elegiaci, nella quale l’autore parla in prima persona di argomenti autobiografici. Come la poesia giovanile, anche l’elegia dell’esilio si presenta come unica forma possibile e adatta per esprimere la sofferenza del poeta. In Amores 1,1 la
scelta del genere elegiaco non era presentata come una decisione spontanea e volontaria dell’autore, ma come l’unica resa possibile da Cupido, che fa innamorare l’autore e “ruba” un piede
all’esametro del poema epico, costringendo il poeta a comporre in distici elegiaci. Anche in esilio il poeta non può scegliere e non può che comporre una poesia triste che lamenti la propria condizione.
Si perdevano così nella poesia dell’esilio due motivi tipici della produzione erotica precedente, che si presentavano in netta rottura con tutta l’elegia romana precedente: da un lato la “capacità del poeta” di comporre in generi diversi, dall’altro “precarietà dell’elegia”, ovvero l’idea che i componimenti elegiaci rappresentino solo un momento in una carriera poetica più vasta, capace di abbracciare il maggior numero possibile di generi. La scelta dell’elegia non è solo per Ovidio un modo di mantenere e di ricostruire il legame con i suoi lettori, ma rappresenta anche la sua personale rivincita sull’imperatore, che credeva di poterlo ridurre finalmente al silenzio mediante la
condanna in esilio. Proprio quando tutto sembrava suggerire un’interruzione definitiva del legame tra il poeta e i suoi lettori, l’autore si sa reinventare per ristabilire questo rapporto, introducendo nel genere che lo ha reso celebre e lo ha danneggiato, l’elegia, tematiche nuove, che pure si ricollegano
alla tradizione elegiaca nata come canto funebre, e riproponendo in essa alcuni motivi e cliché letterari della poesia amorosa, attraverso un procedimento che Labate chiama “riconversione
letteraria”.
In questo processo la figura del poeta reglegatus sostituisce l’exclusus amator, protagonista dell’elegia erotica, ma le sofferenze dell’esule sono descritte con le stesse immagini e lo stesso lessico che caratterizzavano lo struggimento dell’innamorato. Le sofferenze dell’esilio sono le stesse che deve affrontare l’innamorato rifiutato, come gli stessi sono i sintomi fisici del malessere: insonnia, mancanza di appetito, pallore, stanchezza. La riconversione dei motivi è accompagnata da una completa riconversione dei personaggi: non solo l’esiliato prende il posto dell’innamorato, ma anche il principe, indifferente alle sofferenze del poeta e freddo di fronte alle sue preghiere, va a occupare il posto lasciato libero dalla donna crudele e ostinata, mentre ai rivali in amore, sempre in agguato per sottrarre all’elegiaco la donna amata, si sostituiscono i falsi amici che non sostengono la causa di Ovidio presso l’imperatore o addirittura tramano in segreto perché si accresca la disgrazia del poeta. In continuità con la produzione giovanile è anche l’atteggiamento didascalico del poeta, ora non più praeceptor amoris (maestro dell’arte di amare), ma autore di continui suggerimenti rivolti agli amici e alla moglie Fabia.
Perché Ovidio opera una ripresa così fedele di motivi letterari, immagini e situazioni dalla poesia precedente che lo ha tanto danneggiato? Non è solo un modo, come si è visto, per ribadire e
ricostruire il rapporto perduto con i lettori, che lo avevano conosciuto e apprezzato proprio come poeta elegiaco, ma è anch’essa funzionale agli obiettivi di una poesia utile per tornare a Roma. Di fatto l’obiettivo della poesia dell’esilio è lo stesso delle opere giovanili: cambiano i soggetti, cambia
notevolmente il tono, cambia la sensibilità dell’autore, cambiano i motivi che lo spingono a comporre, ma in fondo l’obiettivo ultimo della poesia resta quello della conquista. L’oggetto da
conquistare in questo caso non è certo una donna, ma una serie di fattori che nell’ottica dell’autore avrebbero potuto influire sul proprio ritorno a Roma: l’affetto della moglie, l’appoggio degli amici, il perdono del principe. Per perseguire questi risultati l’autore dovrà adottare una vera e propria strategia di conquista rivolta principalmente agli amici e all’imperatore, che vanno a ricoprire dunque il ruolo che tradizionalmente nell’elegia era occupato dalla donna amata dall’autore. Questa operazione non è dettata soltanto dalla volontà di reimpiegare comodamente materiale già utilizzato e che Ovidio conosce bene, ma deriva dal fatto che tra il poeta e il suo interlocutore, la donna nella
poesia giovanile, il principe nella produzione dell’esilio, intercorre un’analoga relazione di potere: entrambi sono l’ostacolo che il poeta deve superare con la propria strategia di conquista.
*L’immagine in copertina è La solitudine di Cristo di Alphonse Osbert.
Per approfondire
- Fedeli, Paolo, L’elegia triste di Ovidio come poesia di conquista in R. Gazich (a cura di), Fecunda licentia. Tradizione e innovazione in Ovidio elegiaco, Atti delle giornate di Studio all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia e Milano, 16-17 aprile 2002, Milano, 2003, p. 3-33
- Galasso, Luigi (2008), Epistulae ex Ponto. Introduzione, traduzione e commento, Milano, Mondadori
- Galfré, Edoardo (2019), Elegia epistolare, epistola elegiaca: evoluzioni formali e strategie comunicative nelle opere dell’esilio di Ovidio, in C. Fossati (a cura di), La comunicazione epistolare fra Antichità e Rinascimento, Genova
- Labate, Mario (1987), Elegia triste ed elegia lieta. Un caso di riconversione letteraria in «MD» 19, 1987, pp. 91-129
- Rosati, Gianpiero (2003), Dominus/domina: moduli dell’encomio cortigiano e del corteggiamento amoroso in R. Gazich (a cura di), Fecunda licentia. Tradizione e innovazione in Ovidio elegiaco, Atti delle giornate di Studio all’Università Cattolica del Sacro Cuore, Brescia e Milano, 16-17
aprile 2002, Milano, pp. 49-69


Potrebbe anche piacerti:

Forme e immagini (della festa popolare) nelle opere di Aristofane
Giugno 27, 2021
David Foster Wallace, forse non tutto ha una fine
Gennaio 7, 2022