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Teatro: l’arte dell’umano

Nel corso dell’evoluzione, l’essere umano ha sempre cercato di comunicare coi suoi simili, che fosse con gesti, disegni o suoni gutturali e primitivi. Fin dalla sua nascita, l’uomo ha avuto la ferma necessità di spiegare la sua stessa esistenza, in rapporto a se stesso e al mondo in cui viveva, con la costante di dover scoprire e costruire gli elementi necessari per ottenere delle risposte in maniera obiettiva. In questo modo sono nate materie precise come la matematica, l’astronomia, la fisica, ma anche discipline più teoriche, come la filosofia e l’etica e la mitologia.

Oltre al mondo esterno, per l’uomo si è reso necessario spiegare anche il suo mondo interno, la sua anima. Questo ha determinato la nascita di una nuova disciplina, dove l’irrazionale si mischia ai linguaggi espressivi che l’uomo ha sviluppato nel corso del tempo: l’Arte. L’immaginazione dell’essere umano non ha avuto limiti nel corso dei secoli, usando ogni mezzo a sua disposizione per poter esprimere le proprie emozioni e sensazioni interiori, dalla Pittura alla Scultura, alla Musica e via dicendo. Ma tra tutte le Arti che l’uomo ha sviluppato, quella che rappresenta forse di più la natura umana è proprio il Teatro.
Ma cosa differenzia il Teatro dalle altre arti maggiori? Un’opera teatrale è una rappresentazione dell’animo interiore di un autore in un preciso momento della vita. Anche un quadro, una scultura, una canzone sono comunque composti da persone e ne rappresentano un particolare frammento dell’anima. Questo tipo di opere, però, sono perfettamente replicabili nel tempo. La loro conservazione non è sempre integra e perfetta, ma grazie a studi e documenti, possiamo, la maggior parte delle volte, ricostruire o immaginare quale possa essere la loro forma originale. La loro fruizione, si può definire individuale. L’esperienza e le sensazioni derivanti son soggettive, possono essere comuni, ma da individuo a individuo ci sarà sempre un elemento variante.
Da questo punto di vista, un’opera teatrale è diversa; per quanto la conservazione dei testi dei secoli passati sia simile a quello delle opere descritte in precedenza, noi non potremo mai avere l’esatta riproduzione di una tragedia greca o di una drammaturgia di Shakespeare, perché ovviamente non ci sono più gli autori, oltre a non esserci più le condizioni che caratterizzavano la loro vita nelle epoche passate. Rimane solo una manifestazione scritta di quelli che erano i pensieri o le emozioni o il tormento interiore di un particolare autore. Ed è proprio qui che entra in gioco il “fattore umano” del Teatro.
Nonostante non si possa godere della rappresentazione originale, la non replicabilità non è da considerarsi una mancanza, ma anzi un elemento che arricchisce l’esperienza teatrale sia per chi lavora attivamente allo spettacolo, sia per chi assiste al risultato finale. Uno spettacolo nasce, infatti, dal lavoro e dalla collaborazione di una compagnia teatrale, che apporta la propria chiave di lettura, le proprie esperienze, la propria unicità al testo che decide di mettere in scena e trova la sua completezza nel pubblico che guarda lo spettacolo. Con l’eccezione dei testi originali, per le drammaturgie più conosciute non sarà la prima messa in scena.

Si può solo immaginare il numero di compagnie che hanno rappresentato una determinata opera nel corso dei secoli, ognuna con qualcosa di diverso da esprimere (in base alle esigenze del momento, alle persone che hanno lavorato sul testo, ecc…) e il numero di pubblici che ha assistito. In questo caso la fruizione non è considerabile totalmente individuale, come in altri tipi di produzione artistiche, poiché il pubblico, con le sue reazioni e il dialogo che si instaura con la compagnia performante è comparabile a un organismo unico, anzi l’intero complesso di persone durante una replica teatrale è considerabile come un’unica coscienza collettiva, attiva e ricettiva rispetto all’argomento e ai messaggi rappresentati. Un unico essere che processa emozioni e messaggi che crea da se stesso, cercando di raggiungere una sorta di consapevolezza cristallina, che fa nascere nuove domande all’interno del pubblico (rendendolo “attore”) e fa metabolizzare delle risposte all’interno della compagnia (portando a osservare il mondo con occhi diversi). Come un essere umano che scopre e prova a definire se stesso in base alle relazioni che intrattiene con gli individui, che compongono la società in cui vive.

E come un essere umano alla fine del proprio ciclo vitale, l’arte del teatro muore alla fine della rappresentazione, dopo gli applausi, quando il pubblico si alza per andare verso l’uscita se si vuole essere precisi. Ognuno ritorna alla propria dimensione individuale, incosciente forse del fatto di aver preso parte a un evento che non potrà più essere replicato in maniera identica a quanto appena avvenuto. In questo consiste, per me, l’umanità del teatro.

«Non gl’immobili fantocci del Presepio; e nemmeno ombre in movimento. Non sono teatro le pellicole fotografiche che, elaborate una volta per sempre fuor dalla vista del pubblico, e definitivamente affidate a una macchina come quella del Cinema, potranno esser proiettate sopra uno schermo, tutte le volte che si vorrà, sempre identiche, inalterabili e insensibili alla presenza di chi le vedrà. Il Teatro vuole l’attore vivo, e che parla e che agisce scaldandosi al fiato del pubblico; vuole lo spettacolo senza la quarta parete, che ogni volta rinasce, rivive o rimuore fortificato dal consenso, o combattuto dalla ostilità, degli uditori partecipi, e in qualche modo collaboratori.»

– Silvio D’Amico, Storia del teatro

*L’immagine in copertina è Nottambuli di Edward Hopper, 1942, olio su tela

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