Articolo,  Pareri sciolti

La noia, Cecilia e l’inconsistenza delle cose

Alberto Moravia scrive il suo romanzo nel 1960 e lo intitola semplicemente La noiaLa storia racconta di un pittore trentenne – che tuttavia non dipinge più – con una madre molto ricca e immensamente borghese e vuota, dalla quale prende le distanze, e un assillo costante e immutabile: la noia che lo perseguita.

La noia è in questo libro certo una caratteristica pregnante e propria di Dino, il protagonista, una peculiarità tutta sua, sintomo di un velo che si pone tra sé e la realtà, una sorta di pellicola di plastica, perfettamente aderente al mondo. Questa pellicola non altera la realtà, tuttavia ne rivela in qualche modo l’artificio, mostra la sua inconsistenza, il suo esistere solo come rappresentazione mentale e nulla più.

Dunque Dino si annoia non nel modo in cui normalmente si intende, non è che non sappia cosa fare, si annoia perché con questa pellicola che ricopre ogni cosa non riesce più ad avere un contatto con ciò che lo circonda, né con la tela, né con la madre, né con Cecilia.

La noia, per me, è propriamente una specie di insufficienza o inadeguatezza o scarsità della realtà.

Alberto Moravia, La noia

Cecilia, invece, è una sorta di ninfetta nabokoviana, una ragazza di appena quindici anni, in cui si mischiano eroticamente i tratti della donna – fianchi e seno poderosi – e quelli della bambina – viso tondo ed un esile vita. Dopo aver sedotto fino alla morte l’anziano pittore che abita a fianco di Dino inizia una storia d’amore surreale pure con lo stesso protagonista.

La trama è poi di per sé banale, Dino cade presto in un turbine di gelosia, in un’ansia insaziabile di possedere le cose che continuamente gli sfuggono e di possedere finalmente e per davvero Cecilia. Ma la cosa più interessante – di questo che è quasi un’analisi psichiatrica della società moderna – è la scoperta che persino Cecilia, e ancor più di Dino, è annoiata. Eppure c’è una differenza: Dino si preoccupa della sua noia, non la accetta, la comprende come sbagliata e si tormenta per superarla.

Qui vorrei fare un salto, un paragone forse azzardato, ma che a me pare pregnante e potrebbe rendere l’idea. Ci spostiamo di un po’ di anni, 1985, Londra, Oliver Sacks, neurologo, pubblica L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, un saggio che racconta le storie di diversi pazienti da Sacks incontrati nella sua carriera, pazienti con problemi neurologici gravi e particolari. Il primissimo racconto è quello che dà il titolo alla raccolta, l’uomo di cui si parla è uno stimato musicista, con una fervida intelligenza, che a causa di una lesione all’emisfero destro del cervello – quello che consente la decodifica della realtà – vede gli oggetti e le persone che lo circondano come scomposti. Riesce a descrivere minuziosamente ogni dettaglio di quello che lo circonda, ma raramente riesce a capirne la visione di insieme, vede il colore degli occhi delle persone, l’angolo della bocca, ma non sa percepirle come un tutto e quindi non può riconoscerle. Emblematico è l’episodio in qui quest’uomo tiene in mano un guanto, sa descriverlo con minuzia e con grande abbondanza di aggettivi, ma non sa dire cosa sia.

Tornando al nostro romanzo anche Dino ha questa immensa capacità di osservatore, quasi analitica del mondo che lo circonda, ma – seppur a lui non manchi nessuna capacità cognitiva per farlo – non riesce a vederli come un tutto, non riesce a vederli come un tutto chiamato realtà e soprattutto non riesce lui stesso a far parte di questo tutto.

Tutta quest’angoscia e questo sforzo scompaiono in Cecilia, che è in qualche modo inconsapevole della sua noia, né se ne preoccupa e rispetto a Dino non è nemmeno in grado di osservare. Quando il suo amante la tormenta di domande lei rimane laconica e sorda al mondo.

– Tuo padre è malato? –
– Sì. –
– Di che malattia è malato? –
– È malato di cancro. –
– Che dicono i medici? –
– Dicono che è malato di cancro. –
-No, voglio sapere se pensano che possa guarire. –
– No, dicono che non può guarire. –
– Allora morirà presto? –
– Sì, dicono che morirà presto. –
– Ti dispiace? –
– Che cosa? –
– Che tuo padre muoia. –
– Sì. –
– Lo dici così? –
– Come dovrei dirlo? –
– Ma tu vuoi bene a tuo padre? –
– Sì. –
– Beh, andiamo avanti, tua madre com’è? –
– Come sarebbe a dire com’è? –
– Beh, piccola, grande, bella, brutta, bruna, bionda?
– È così così, una donna come ce ne sono tante. –
– Ma insomma che aspetto ha? –
– Mah, non ha nessun aspetto. –
– Nessun aspetto? Ma che dici? –
– Voglio dire nessun aspetto particolare. È come tutte le altre. –

Di questo passo Cecilia vede tutto attorno a sé, case «come ce ne sono tante altre», mobili «come tutti gli altri» e via dicendo. Cecilia nasce già nell’accettazione di questa nuova condizione esistenziale, dove il mondo è inconsistente e rarefatto, dove la noia domina sovrana nei rapporti con le persone e con le cose, dove la mente gettata nel marasma del consumismo e dell’etichetta borghese non può far altro che annoiarsi, per salvarsi dalla pazzia. Per lei non c’è problematicità, l’unico errore di Dino è proprio quello di preoccuparsi, di affannarsi nelle domande, nelle descrizioni per riuscire anche solo per un istante a possedere le cose, la vera soluzione è smettere di lottare e accettare che non potremo mai togliere la pellicola che ricopre il nostro mondo.

In principio, dunque, era la noia, volgarmente chiamata caos. Iddio, annoiatosi della noia, creò la terra, il cielo, l’acqua, gli animali, le piante, Adamo ed Eva; i quali ultimi, annoiandosi a loro volta del paradiso, mangiarono il frutto proibito. Iddio si annoiò di loro e li cacciò dall’Eden.

– Alberto moravia, La noia

*L’immagine in copertina è Pigrizia di Félix Vallotton, 1986, xilografia a inchiostro nero.

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