
Erodoto di Alicarnasso
Questa è l’esposizione delle ricerche di Erodoto di Alicarnasso perché le imprese degli uomini col tempo non siano dimenticate, né le gesta dei grandi e meravigliose così dei Greci come dei Barbari rimangano senza gloria, e, inoltre per mostrare per quale motivo vennero a guerra fra loro.
– Erodoto, Storie, I, 1
Erodoto, considerato il padre della storiografia e dell’antropologia, nacque fra il 490 e il 480 a.C. ad Alicarnasso, città e porto della Caria, una regione situata sulla costa occidentale dell’Asia Minore.
Alicarnasso fu colonizzata da genti di stirpe dorica attorno al 1000 a.C., ma successivamente cadde nell’orbita persiana e venne instaurata una tirannide appoggiata dai re persiani. Le guerre persiane, scoppiate attorno al 499 a.C. e concluseti nel 479 a.C., videro le póleis (“città”, in greco) greche uscire vincitrici dal conflitto contro l’impero persiano e portarono a un completo sconvolgimento dei rapporti di potere anche in quell’area dell’Asia Minore.
Erodoto e Paniassi, celebre poeta epico, indovino e membro della famiglia di Erodoto, cercarono di abbattere la tirannide di Ligdami II, ma il loro insuccesso portò a tragiche conseguenze: Paniassi fu ucciso ed Erodoto fu costretto a fuggire a Samo, città ionica alleata di Atene e aderente alla lega delio-attica, creata per difendere i Greci d’Asia e delle isole dalla Persia.
In questo periodo dovremo collocare la maggior parte dei viaggi di Erodoto, che furono fondamentali per fornirgli materiale utile alla composizione della sua opera storiografica, le Storie: si recò in Egitto, poi in Fenicia, Mesopotamia e nel Mar Nero, dove entrò in contatto con gli Sciti, popolo nomade dell’Asia centrale.
Successivamente Erodoto partecipò ad una ribellione che pose fine alla tirannide di Ligdami II e, dal 454 a.C., dopo essersi affrancata dal dominio persiano, Alicarnasso entrò a far parte della lega delio-attica.
Il suo rapporto con Atene fu stretto: amico di Pericle e Sofocle, attorno al 444/443 a.C. partecipò, insieme ad altri celebri personaggi come il sofista Protagora e l’architetto Ippodamo di Mileto, alla fondazione di Turi, colonia panellenica nella Magna Grecia, dove, secondo la tradizione antica, morì e fu sepolto. A sostegno di questo suo legame con la città di Turi c’è una variante del proemio delle Storie, nota già nel IV secolo a.C. e citata anche nella Retorica di Aristotele (1409a), che lo identifica come “Erodoto di Turi” e non come “Erodoto di Alicarnasso”: questo perché, probabilmente, avrebbe assunto anche la cittadinanza della nuova colonia.
Non si conosce la data della morte di Erodoto, ma sicuramente avvenne dopo il 430 a.C., dal momento che lo storico conosce alcuni episodi della fase iniziale della guerra del Peloponneso, il cui inizio fu nel 431 a.C.
Le Storie ci sono giunte in nove libri, ognuno dei quali porta il nome di una delle nove Muse, figlie di Zeus e Mnemosine e divinità protettrici del canto e della danza: Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope. Questa suddivisione dell’opera non è considerata dagli studiosi quella originale, ma è attribuita ai filologi alessandrini: la genesi del testo erodoteo è ancora oggetto di discussione. Certa invece è la destinazione del lavoro di Erodoto: le Storie furono composte per essere declamate oralmente nel corso di pubbliche esibizioni.
Nel Prologo (I,1), lo storiografo, per prima cosa, si presenta e specifica quale sarà l’argomento del suo lavoro: il rapporto fra i Greci e i Persiani e, soprattutto, le cause che hanno portato queste due realtà a scontrarsi. Si rivela uno storico imparziale: riporta le opere degne di menzione, i vizi e le virtù sia dei Greci sia dei Barbari e crede che ciò che li distingue sia il sistema politico che li regge (la democrazia per i Greci, la monarchia per i Persiani).
Ma Erodoto non si limita alla descrizione sistematica dei due popoli, ma riporta tutto ciò che, a suo parere, è meraviglioso e degno di menzione: non solo, quindi, le ragioni che portarono alla scoppio delle guerre persiane, ma anche i costumi di popolazioni lontane, geografia, costruzioni architettoniche, religioni, leggende, oracoli e piccole realtà che potessero affascinare, intrattenere ed incuriosire l’uditorio presente alle esibizioni pubbliche.
Proprio per questo suo interesse nei confronti delle diverse culture dei popoli viene definito il “padre dell’antropologia”: nelle sue sezioni etnografiche descriveva prima la regione in questione (confini, clima, territorio, conformazione, flora e fauna) e poi gli uomini che la abitavano (origine, stirpe, passato, modo di vivere, leggi).
A partire dagli storici successivi, e da Tucidide in particolare, storico ateniese vissuto nella seconda metà del V secolo a.C., questi elementi furono eliminati dalla narrazione, privilegiando unicamente la storia politica.
Le fonti di cui Erodoto usufruì per la composizione della sua opera furono principalmente: tradizioni locali trasmesse oralmente, testimoni presenti ad un dato evento, documenti e la visita nei luoghi da parte dello stesso storico durante i suoi viaggi.
Come lui stesso specifica nel secondo libro (Storie, II, 122-123), “quanto a me, io mi sono proposto in tutta la mia storia di scrivere comunque, come le ho sentite, le cose narrate dagli uni e dagli altri”: Erodoto non passa al vaglio della ragione e non discute ogni testimonianza con cui è venuto a contatto, ma si limita a riportare tutto ciò che ha udito o letto, lasciando decidere all’ascoltatore quale sia la versione più convincente.
Le Storie sono scritte in dialetto ionico letterario, ma non si tratta di uno ionico puro: si trovano forme elevate di derivazione poetica, desunte dal lessico omerico, e anche forme attiche. La lingua e il vocabolario sono ricchi e duttili e vi è una predilezione per la struttura paratattica, che permette all’uditorio di seguire agevolmente la narrazione.
Il passo che ho scelto di riportare è il celebre episodio di Creso e Solone, una delle tante novelle che costellano le Storie di Erodoto: le novelle permettono allo storico di Alicarnasso di catturare e rinnovare l’attenzione degli ascoltatori, presentando vicende dilettevoli o moraleggianti, e di interrompere o riprendere i fili della narrazione. Tali inserti si trovano soprattutto nei primi libri e costituiscono una caratteristica peculiare del discorso erodoteo.
Solone fu un importante legislatore e poeta ateniese. Creso, invece, alla morte di suo padre Aliatte, divenne re della Lidia (antica regione della Turchia asiatica): iniziò una politica espansionistica che lo portò a controllare quasi tutti i territori dell’Asia Minore al di qua del fiume Halys (l’odierno Kızılırmak, il fiume più lungo della Turchia). Ed è proprio a Sardi, capitale della Lidia, inondata da questo clima di opulenza e splendore, che è ambientato il dialogo fra il re lidio e Solone, che si era allontanato da Atene per non essere costretto a modificare alcuna delle leggi che aveva promulgato.
Questo incontro fra il legislatore ateniese e il sovrano dei Lidi, però, è cronologicamente impossibile: Solone visse dal 640 al 560 a.C. e compì i suoi viaggi dopo il 594/593 a.C., ossia una generazione prima di Creso.
Il dialogo fra i due si concentra sul tema della felicità umana, che è sapientemente distinta da Solone in fortuna passeggera, εὐτυχίη (si legge eutuchíe) e felicità definitivamente acquisita, ὄλβος (si legge ólbos): nessun uomo può essere definito felice prima di aver terminato la propria vita, dal momento che la condizione umana è mutevole e gli dei invidiosi, pronti a colpire gli uomini che si vantano della loro fortuna.
Inoltre è attestata anche la contrapposizione fra due ideali di felicità, quello orientale e quello greco: il primo crede che la felicità risieda in una ricchezza smisurata, il secondo nella moderazione. Ma si evidenzia anche il contrasto fra sapienza e stoltezza, ignoranza a consapevolezza: la consapevolezza della caducità della vita umana.
* L’immagine in copertina è un’illustrazione di autore sconosciuto, che rappresenta una bireme greca, nel 500 a.C. (oggi esposta al British Museum).
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Erodoto, Storie, I, 29-33 (traduzione di L. Annibaletto)
Quando dunque tutti questi furono assoggettati (i popoli al di qua del fiume Halys) e Creso li ebbe annessi ai Lidi giunsero a Sardi, fiorente nella sua ricchezza, ciascuno a suo piacimento, tutti gli altri saggi dell’Ellade che vivevano allora, e fra essi anche Solone d’Atene, il quale, dopo aver compilato leggi per gli Ateniesi che lo avevano a ciò invitato, si era allontanato dalla patria per dieci anni, col pretesto di viaggiare per vedere il mondo, ma in realtà per non essere costretto ad abrogare alcuna delle leggi che aveva stabilito: gli Ateniesi infatti da soli non avevano la possibilità di farlo, ché con solenni giuramenti s’erano obbligati ad osservare per dieci anni le leggi che Solone avesse loro date.Per questi motivi, dunque, e anche per curiosità, avendo lasciato il suo paese, Solone si recò in Egitto presso Amasi e poi anche a Sardi da Creso. Quivi giunto, fu ospitalmente accolto dal re nella reggia. Due o tre giorni dopo il suo arrivo, per ordine di Creso stesso, dei servi condussero Solone per le sale del tesoro e gli mostrarono che tutto era splendido e fastoso. Quando egli ebbe visto e osservato con tutta comodità ogni cosa, Creso gli rivolse questa domanda: «Ospite di Atene, poiché è giunta fino a noi grande fama di te, della tua saggezza e dei tuoi viaggi, che, cioè, per amore del tuo sapere hai con cura visitato gran parte della terra, ora mi è venuto il desiderio di domandarti se tu hai già visto un uomo, che sia il più felice del mondo».Questo egli domandava nella segreta speranza di essere lui stesso indicato come il più felice degli uomini; ma Solone, lontano da ogni adulazione e badando solo alla verità, rispose: «Sì, o re, Tello di Atene!» Pieno di stupore per questa affermazione, Creso gli domandò con vivacità: «E per quale motivo pensi tu che Tello sia l’uomo più felice del mondo?» L’altro replicò: «Tello, in un momento di splendore per la città, ebbe dei figli belli e buoni e di tutti vide venire al mondo i figli e tutti rimanere in vita; non solo, ma, fortunato egli stesso nella vita come si può esserlo fra noi, gli sopraggiunse la fine più gloriosa; poiché essendo gli Ateniesi impegnati in una battaglia ad Eleusi contro i loro vicini (i Megaresi) egli, accorso sul campo e costretto i nemici alla fuga, morì nel modo più bello. Gli Ateniesi lo seppellirono a spese pubbliche là, nel luogo stesso dov’era caduto, e gli tributarono grandi onori».Quando Solone, esaltandone a lungo la felicità, ebbe rivolto alle vicende di Tello l’animo di Creso, questi gli chiese quale degli uomini che avesse visto poteva essere secondo dopo di quello, convinto che il secondo posto, almeno, sarebbe stato per lui. Ma Solone disse: «Cleobi e Bitone. Erano, infatti, di stirpe argiva e godevano di sufficienti mezzi di vivere e in più, di una vigoria fisica a tutta prova, poiché ambedue, allo stesso modo, erano stati vincitori di pubbliche gare e si racconta di essi anche questo episodio: celebrando gli Argivi la festa di Era, la loro madre doveva assolutamente farsi portare su un carro al tempio. Ma i buoi, che erano in campagna, non tornavano in tempo; allora i giovani, che non potevano più oltre attendere, si misero essi stessi sotto il giogo e tirarono il carro, sul quale veniva trasportata la loro madre e dopo averla trainata per 45 stadi (oltre 8 chilometri) giunsero al santuario. Compiuta che ebbero questa prodezza, ammirati da tutta la folla radunata, toccò a essi la miglior fine della vita; e nel loro caso la divinità fece chiaramente comprendere che è meglio per l’uomo essere morto, piuttosto che godere la vita. Gli Argivi, infatti, affollatisi intorno, complimentavano i due giovani per la loro forza, mentre le donne d’Argo si congratulavano con la loro madre perché aveva dei figli siffatti. Tanto che essa, piena di gioia per la loro impresa e per le lodi che sentiva intorno, stando ritta davanti alla statua divina, pregò la dea che ai suoi figli Cleobi e Bitone, che l’avevano grandemente onorata, concedesse ciò che un uomo può ottenere di meglio. In seguito a questa preghiera, terminato il sacrificio e il sacro banchetto, i due giovani, che s’erano addormentati nel santuario stesso, non si rialzarono più, ma in questo modo morirono. Gli Argivi, fatte fare due statue a loro immagine, le consacrarono nel tempio di Delfi, come quelle di uomini che s’erano mostrati eccellenti».Solone, dunque, a questi giovani assegnava il secondo premio della felicità; e Creso, un po’ stizzito, esclamò: «Ospite di Atene, la nostra felicità è da te così considerata un nulla, che non ci stimi degni nemmeno di rivaleggiare nemmeno con dei semplici cittadini privati?» Solone gli rispose: «O Creso, proprio a me, che so come la divinità in tutto sia gelosa e facile a sconvolgere ogni cosa, tu poni domande sulle vicende umane. Nel lungo fluire del tempo, molte cose si possono vedere, che pure uno non vorrebbe, e molte anche soffrirne. Poiché io considero il limite della vita umana a press’a poco sui 70 anni. Questi 70 periodi annuali ci presentano 25.200 giorni, senza contare il mese intercalare; che se poi si vorrà che un anno su due venga prolungato di un mese, affinché il ciclo delle stagioni coincida con l’anno arrivando al tempo giusto, nel corso dei 70 anni si hanno 35 mesi intercalari, e i giorni che ne derivano sono 1050. Orbene, di tutti questi giorni che formano i 70 anni – e sono 26.250 -, non ce n’è uno che trasmetta all’altro una cosa completamente uguale. Così, dunque, o Creso, l’uomo è tutto in balia degli eventi. A me tu, ora, appari possessore di grandi ricchezze e re di molti popoli; ma quello che tu mi chiedi io non te lo posso ancora dire, prima di aver saputo che hai chiuso la tua vita in prosperità. Poiché non è vero che colui è molto ricco sia più felice di chi ha da vivere alla giornata, se non l’accompagna la fortuna di terminare la vita in una completa felicità: molti uomini straricchi sono infelici, mentre molti che hanno modeste possibilità di vita sono felici. L’uomo che è molto ricco, ma infelice, ha due soli vantaggi su colui che la fortuna non protegge; questi, invece, sul ricco e infelice ne ha molti. Il primo ha più possibilità di soddisfare i propri desideri e di far fronte a una grave disgrazia che gli sia caduta addosso, ma il secondo lo supera in questo: non ha la possibilità, come quello, di sopportare una disgrazia o soddisfare un desiderio, ma da ciò lo libera la sua buona fortuna; invece è privo di infermità, senza malattie, al riparo dai mali, ha una bella figliolanza, un bell’aspetto: se, oltre a tutto ciò, egli chiuderà in bellezza la vita, questo è colui che tu cerchi, quello che merita di essere chiamato felice; però, prima che egli muoia bisogna sospendere il giudizio e chiamarlo non ancora felice, ma fortunato. Non è possibile per un uomo abbracciare tutti insieme questi vantaggi, come non c’è paese alcuno che basti a fornire tutto ciò di cui ha bisogno. Ma se possiede una cosa, manca di un’altra; il paese che ne possiede più di tutti, questo è il migliore del mondo. Così pure non c’è alcun individuo che, da solo, possa bastare a se stesso: se ha un bene, di un altro è privo. Ma colui che duri nel possesso del maggior numero di questi beni e poi chiuda serenamente la vita, costui, o re, a mio giudizio ha il diritto di ottenere l’appellativo di felice. Di ogni cosa bisogna considerare la conclusione, come andrà a finire, poiché a molti già il dio lasciò intravedere la felicità e poi li precipitò nella più profonda rovina».Con queste parole non faceva, io credo, molto piacere a Creso il quale lo congedò, non avendolo ritenuto degno di alcuna considerazione; piuttosto stolto, anzi, gli era sembrato; egli che, sdegnando i beni presenti, consigliava di badare alla fine di ogni cosa.
Kατεστραμμένων δὴ τούτων [καὶ προσεπικτωμένου Κροίσου Λυδοῖσι], ἀπικνέονται ἐς Σάρδις ἀκμαζούσας πλούτῳ ἄλλοι τε οἱ πάντες ἐκ τῆς Ἑλλάδος σοφισταί, οἳ τοῦτον τὸν χρόνον ἐτύγχανον ἐόντες, ὡς ἕκαστος αὐτῶν ἀπικνέοιτο, καὶ δὴ καὶ Σόλων ἀνὴρ Ἀθηναῖος, ὃς Ἀθηναίοισι νόμους κελεύσασι ποιήσας ἀπεδήμησε ἔτεα δέκα, κατὰ θεωρίης πρόφασιν ἐκπλώσας, ἵνα δὴ μή τινα τῶν νόμων ἀναγκασθῇ λῦσαι τῶν ἔθετο. Αὐτοὶ γὰρ οὐκ οἷοί τε ἦσαν αὐτὸ ποιῆσαι Ἀθηναῖοι· ὁρκίοισι γὰρ μεγάλοισι κατείχοντο δέκα ἔτεα χρήσεσθαι νόμοισι τοὺς ἄν σφι Σόλων θῆται. Αὐτῶν δὴ ὦν τούτων καὶ τῆς θεωρίης ἐκδημήσας ὁ Σόλων εἵνεκεν ἐς Αἴγυπτον ἀπίκετο παρὰ Ἄμασιν καὶ δὴ καὶ ἐς Σάρδις παρὰ Κροῖσον. Ἀπικόμενος δὲ ἐξεινίζετο ἐν τοῖσι βασιληίοισι ὑπὸ τοῦ Κροίσου· μετὰ δέ, ἡμέρῃ τρίτῃ ἢ τετάρτῃ, κελεύσαντος Κροίσου τὸν Σόλωνα θεράποντες περιῆγον κατὰ τοὺς θησαυροὺς καὶ ἐπεδείκνυσαν πάντα ἐόντα μεγάλα τε καὶ ὄλβια. Θεησάμενον δέ μιν τὰ πάντα καὶ σκεψάμενον, ὥς οἱ κατὰ καιρὸν ἦν, εἴρετο ὁ Κροῖσος τάδε· “Ξεῖνε Ἀθηναῖε, παρ’ ἡμέας γὰρ περὶ σέο λόγος ἀπῖκται πολλὸς καὶ σοφίης [εἵνεκεν] τῆς σῆς καὶ πλάνης, ὡς φιλοσοφέων γῆν πολλὴν θεωρίης εἵνεκεν ἐπελήλυθας· νῦν ὦν ἐπειρέσθαι σε ἵμερος ἐπῆλθέ μοι εἴ τινα ἤδη πάντων εἶδες ὀλβιώτατον.” Ὁ μὲν ἐλπίζων εἶναι ἀνθρώπων ὀλβιώτατος ταῦτα ἐπειρώτα, Σόλων δὲ οὐδὲν ὑποθωπεύσας, ἀλλὰ τῷ ἐόντι χρησάμενος, λέγει· “Ὦ βασιλεῦ, Τέλλον Ἀθηναῖον.” Ἀποθωμάσας δὲ Κροῖσος τὸ λεχθὲν εἴρετο ἐπιστρεφέως· “Κοίῃ δὴ κρίνεις Τέλλον εἶναι ὀλβιώτατον;” Ὁ δὲ εἶπε· “Τέλλῳ τοῦτο μὲν τῆς πόλιος εὖ ἡκούσης παῖδες ἦσαν καλοί τε κἀγαθοί, καί σφι εἶδε ἅπασι τέκνα ἐκγενόμενα καὶ πάντα παραμείναντα, τοῦτο δὲ τοῦ βίου εὖ ἥκοντι, ὡς τὰ παρ’ ἡμῖν, τελευτὴ τοῦ βίου λαμπροτάτη ἐπεγένετο· γενομένης γὰρ Ἀθηναίοισι μάχης πρὸς τοὺς ἀστυγείτονας ἐν Ἐλευσῖνι βοηθήσας καὶ τροπὴν ποιήσας τῶν πολεμίων ἀπέθανε κάλλιστα, καί μιν Ἀθηναῖοι δημοσίῃ τε ἔθαψαν αὐτοῦ τῇ περ ἔπεσε καὶ ἐτίμησαν μεγάλως.” Ὡς δὲ τὰ κατὰ τὸν Τέλλον προετρέψατο ὁ Σόλων τὸν Κροῖσον εἴπας πολλά τε καὶ ὄλβια, ἐπειρώτα τίνα δεύτερον μετ’ ἐκεῖνον ἴδοι, δοκέων πάγχυ δευτερεῖα γῶν οἴσεσθαι. Ὁ δὲ εἶπε· “Κλέοβίν τε καὶ Βίτωνα. Τούτοισι γὰρ ἐοῦσι γένος Ἀργείοισι βίος τε ἀρκέων ὑπῆν καὶ πρὸς τούτῳ ῥώμη σώματος τοιήδε· ἀεθλοφόροι τε ἀμφότεροι ὁμοίως ἦσαν, καὶ δὴ καὶ λέγεται ὅδε [ὁ] λόγος· ἐούσης ὁρτῆς τῇ Ἥρῃ τοῖσι Ἀργείοισι ἔδεε πάντως τὴν μητέρα αὐτῶν ζεύγεϊ κομισθῆναι ἐς τὸ ἱρόν, οἱ δέ σφι βόες ἐκ τοῦ ἀγροῦ οὐ παρεγίνοντο ἐν ὥρῃ· ἐκκληιόμενοι δὲ τῇ ὥρῃ οἱ νεηνίαι ὑποδύντες αὐτοὶ ὑπὸ τὴν ζεύγλην εἷλκον τὴν ἅμαξαν, ἐπὶ τῆς ἁμάξης δέ σφι ὠχέετο ἡ μήτηρ, σταδίους δὲ πέντε καὶ τεσσεράκοντα διακομίσαντες ἀπίκοντο ἐς τὸ ἱρόν. Ταῦτα δέ σφι ποιήσασι καὶ ὀφθεῖσι ὑπὸ τῆς πανηγύριος τελευτὴ τοῦ βίου ἀρίστη ἐπεγένετο, διέδεξέ τε ἐν τούτοισι ὁ θεὸς ὡς ἄμεινον εἴη ἀνθρώπῳ τεθνάναι μᾶλλον ἢ ζώειν. Ἀργεῖοι μὲν γὰρ περιστάντες ἐμακάριζον τῶν νεηνιέων τὴν ῥώμην, αἱ δὲ Ἀργεῖαι τὴν μητέρα αὐτῶν, οἵων τέκνων ἐκύρησε. Ἡ δὲ μήτηρ περιχαρὴς ἐοῦσα τῷ τε ἔργῳ καὶ τῇ φήμῃ, στᾶσα ἀντίον τοῦ ἀγάλματος εὔχετο Κλεόβι τε καὶ Βίτωνι τοῖσι ἑωυτῆς τέκνοισι, οἵ μιν ἐτίμησαν μεγάλως, τὴν θεὸν δοῦναι τὸ ἀνθρώπῳ τυχεῖν ἄριστόν ἐστι. Μετὰ ταύτην δὲ τὴν εὐχὴν ὡς ἔθυσάν τε καὶ εὐωχήθησαν, κατακοιμηθέντες ἐν αὐτῷ τῷ ἱρῷ οἱ νεηνίαι οὐκέτι ἀνέστησαν, ἀλλ’ ἐν τέλεϊ τούτῳ ἔσχοντο. Ἀργεῖοι δέ σφεων εἰκόνας ποιησάμενοι ἀνέθεσαν ἐς Δελφοὺς ὡς ἀνδρῶν ἀρίστων γενομένων.”
Σόλων μὲν δὴ εὐδαιμονίης δευτερεῖα ἔνεμε τούτοισι, Κροῖσος δὲ σπερχθεὶς εἶπε· “Ὦ ξεῖνε Ἀθηναῖε, ἡ δ’ ἡμετέρη εὐδαιμονίη οὕτω τοι ἀπέρριπται ἐς τὸ μηδέν, ὥστε οὐδὲ ἰδιωτέων ἀνδρῶν ἀξίους ἡμέας ἐποίησας;” Ὁ δὲ εἶπε· “Ὦ Κροῖσε, ἐπιστάμενόν με τὸ θεῖον πᾶν ἐὸν φθονερόν τε καὶ ταραχῶδες ἐπειρωτᾷς ἀνθρωπηίων πρηγμάτων πέρι. Ἐν γὰρ τῷ μακρῷ χρόνῳ πολλὰ μὲν ἔστι ἰδεῖν τὰ μή τις ἐθέλει, πολλὰ δὲ καὶ παθεῖν. Ἐς γὰρ ἑβδομήκοντα ἔτεα οὖρον τῆς ζόης ἀνθρώπῳ προτίθημι. Οὗτοι ἐόντες ἐνιαυτοὶ ἑβδομήκοντα παρέχονται ἡμέρας διηκοσίας καὶ πεντακισχιλίας καὶ δισμυρίας, ἐμβολίμου μηνὸς μὴ γινομένου· εἰ δὲ δὴ ἐθελήσει τοὔτερον τῶν ἐτέων μηνὶ μακρότερον γίνεσθαι, ἵνα δὴ αἱ ὧραι συμβαίνωσι παραγινόμεναι ἐς τὸ δέον, μῆνες μὲν παρὰ τὰ ἑβδομήκοντα ἔτεα οἱ ἐμβόλιμοι γίνονται τριήκοντα πέντε, ἡμέραι δὲ ἐκ τῶν μηνῶν τούτων χίλιαι πεντήκοντα. Τουτέων τῶν ἁπασέων ἡμερέων τῶν ἐς τὰ ἑβδομήκοντα ἔτεα, ἐουσέων πεντήκοντα καὶ διηκοσιέων καὶ ἑξακισχιλιέων καὶ δισμυριέων, ἡ ἑτέρη αὐτέων τῇ ἑτέρῃ ἡμέρῃ τὸ παράπαν οὐδὲν ὅμοιον προσάγει πρῆγμα. Οὕτω ὦν, ὦ Κροῖσε, πᾶν ἐστι ἄνθρωπος συμφορή. Ἐμοὶ δὲ σὺ καὶ πλουτέειν μέγα φαίνεαι καὶ βασιλεὺς πολλῶν εἶναι ἀνθρώπων· ἐκεῖνο δὲ τὸ εἴρεό με οὔ κώ σε ἐγὼ λέγω, πρὶν τελευτήσαντα καλῶς τὸν αἰῶνα πύθωμαι. Οὐ γάρ τι ὁ μέγα πλούσιος μᾶλλον τοῦ ἐπ’ ἡμέρην ἔχοντος ὀλβιώτερός ἐστι, εἰ μή οἱ τύχη ἐπίσποιτο πάντα καλὰ ἔχοντα εὖ τελευτῆσαι τὸν βίον. Πολλοὶ μὲν γὰρ ζάπλουτοι ἀνθρώπων ἀνόλβιοί εἰσι, πολλοὶ δὲ μετρίως ἔχοντες βίου εὐτυχέες. Ὁ μὲν δὴ μέγα πλούσιος, ἀνόλβιος δέ, δυοῖσι προέχει τοῦ εὐτυχέος μοῦνον, οὗτος δὲ τοῦ πλουσίου καὶ ἀνολβίου πολλοῖσι· ὁ μὲν ἐπιθυμίην ἐκτελέσαι καὶ ἄτην μεγάλην προσπεσοῦσαν ἐνεῖκαι δυνατώτερος, ὁ δὲ τοῖσδε προέχει ἐκείνου· ἄτην μὲν καὶ ἐπιθυμίην οὐκ ὁμοίως δυνατὸς ἐκείνῳ ἐνεῖκαι, ταῦτα δὲ ἡ εὐτυχίη οἱ ἀπερύκει, ἄπηρος δέ ἐστι, ἄνουσος, ἀπαθὴς κακῶν, εὔπαις, εὐειδής· εἰ δὲ πρὸς τούτοισι ἔτι τελευτήσει τὸν βίον εὖ, οὗτος ἐκεῖνος τὸν σὺ ζητέεις, ‹ὁ› ὄλβιος κεκλῆσθαι ἄξιός ἐστι· πρὶν δ’ ἂν τελευτήσῃ, ἐπισχεῖν μηδὲ καλέειν κω ὄλβιον, ἀλλ’ εὐτυχέα. Τὰ πάντα μέν νυν ταῦτα συλλαβεῖν ἄνθρωπον ἐόντα ἀδύνατόν ἐστι, ὥσπερ χώρη οὐδεμία καταρκέει πάντα ἑωυτῇ παρέχουσα, ἀλλὰ ἄλλο μὲν ἔχει, ἑτέρου δὲ ἐπιδέεται· ἣ δὲ ἂν τὰ πλεῖστα ἔχῃ, αὕτη ἀρίστη. Ὣς δὲ καὶ ἀνθρώπου σῶμα ἓν οὐδὲν αὔταρκές ἐστι· τὸ μὲν γὰρ ἔχει, ἄλλου δὲ ἐνδεές ἐστι· ὃς δ’ ἂν αὐτῶν πλεῖστα ἔχων διατελέῃ καὶ ἔπειτα τελευτήσῃ εὐχαρίστως τὸν βίον, οὗτος παρ’ ἐμοὶ τὸ οὔνομα τοῦτο, ὦ βασιλεῦ, δίκαιός ἐστι φέρεσθαι. Σκοπέειν δὲ χρὴ παντὸς χρήματος τὴν τελευτὴν κῇ ἀποβήσεται· πολλοῖσι γὰρ δὴ ὑποδέξας ὄλβον ὁ θεὸς προρρίζους ἀνέτρεψε.” Ταῦτα λέγων τῷ Κροίσῳ οὔ κως οὔτε ἐχαρίζετο, οὔτε λόγου μιν ποιησάμενος οὐδενὸς ἀποπέμπεται, κάρτα δόξας ἀμαθέα εἶναι, ὃς τὰ παρεόντα ἀγαθὰ μετεὶς τὴν τελευτὴν παντὸς χρήματος ὁρᾶν ἐκέλευε.


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