Inedito,  Prosa

Come i gatti sopra al tetto

C’è un cavalcavia su Corso Dante, sul quale le macchine corrono veloci, che passa da parte a parte i numerosi binari che si intrecciano in entrata e in uscita dalla stazione di Porta Nuova.
Se, dando le spalle a Corso Unione Sovietica, guardassi alla tua destra, potresti scorgere l’Arco Olimpico, anni fa simbolo di fierezza e unione nel nome dello sport, oramai triste e scolorato, l’abbandono percepibile a chilometri di distanza. Nelle giornate terse lo si può vedere sovrastato da magnifici tramonti.
Guardando alla tua sinistra invece scorgeresti una fila di casermoni abbandonati, soffocati dalle erbacce, posti a lato dei binari come a volerli proteggere dalla vista della strada.
Ci sono dei tetti poi, i tetti di questi casermoni, con le tegole rotte e sporche di escrementi di uccello. Qualche volta, specialmente in quelle giornate primaverili dove fa caldo ma non c’è afa, si vedono i gatti camminarci sopra. Ce n’è spesso uno a macchie bianche e nere, e uno completamente nero con un occhio mezzo chiuso.
Oggi però non ci sono gatti. Non è una giornata primaverile.
Settembre sta finendo, le giornate si accorciano e il clima non è più caldo come era fino a qualche
settimana fa; i gatti sono rintanati in qualche posto più accogliente.
Sul tetto c’è solo Alexej.

C’è un muretto invaso dalla vegetazione che separa il cavalcavia da ciò che sta sotto. Non è alto, più che una vera e propria divisione è una sicurezza, per impedire che qualche sbadato perda l’equilibrio e cada giù. Ma non è difficile da scavalcare. Il tetto è separato dal muretto solo da un metro scarso. Per saltare da una parte all’altra non serve chissà che talento atletico. Basta solo un po’ di coraggio, e la certezza che il tetto non franerà.
Alexej siede sul tetto, le gambe piegate, gli avambracci appoggiati alle ginocchia. In mano una
Peroni da 66 ghiacciata, quasi finita, e oramai mezza sgasata.
Guarda dritto davanti a sé.
Pensa.
Il tramonto è oro, arricchito da nuvole arancioni. Le macchine passano e a lui sembrano così distanti.

Gliel’ha insegnato Michela come si fa a salire su quei tetti.

Quando è triste Alexej ama osservare le cose dall’alto. Ama stare in silenzio, seduto, immobile, a concentrarsi sul freddo della sera e a pensare.
Dall’alto vede tutto. Vede il cielo, immenso senza essere spezzettato in tutti quei quadratini che intervallano i palazzi se lo si guarda dal marciapiede, vede le rotaie, quei casermoni abbandonati.

È un panorama triste, un po’ malinconico, ma di una bellezza struggente con i binari illuminati dalla luce dorata del tramonto. 

Normalmente a lui piacciono i panorami che sembrano un po’ abbandonati. E quegli edifici abbandonati esercitano su di lui un fascino magnetico. Chissà cosa erano? Troppo piccoli per esser fabbriche. Forse rimesse ferroviarie? Non riesce a immaginarli in un modo diverso da quello che vede. Ci prova e ci riprova, a sovrapporre mentalmente a ciò che c’è l’immagine di finestre integre, tegole sistemate ordinatamente, una strada pulita. Ma non ci riesce. Le finestre rotte sono sempre lì.
E così il tetto in condizioni precarie sul quale è seduto. Davanti a quello che era un portone d’ingresso la strada è un macello di fango e erbe infestanti e i muri sono scrostati e pieni di graffiti. Chissà chi li ha fatti quei graffiti? Non si può accedere a quella zona dalla strada. O meglio, bisogna esserne capaci, averne il coraggio, fregarsene un po’ delle conseguenze. Un po’ come per salire sul tetto.
Quei graffiti di sicuro li ha fatti Michela.
Anzi, in realtà è poco probabile che li abbia fatti lei, ma se non è stata lei allora è stato qualcuno come lei, così è più bello pensare che sia stata lei.
E poi, ci metterebbe la mano sul fuoco, di sicuro Michela ne ha fatto almeno uno. È proprio nel suo stile.

Fuori di testa, Michela.
Completamente pazza.
Bellissima.
E non ti accorgevi neanche subito della sua bellezza, no.
Ma aveva questi occhi.
Questi occhi.
Gli occhi di Michela hanno questo fuoco dentro che ti fa dubitare di trovarti davanti ad un folle, oppure ad un genio. Probabilmente entrambe le cose.
E la sua risata, Cristo.
Un po’ roca, forte, rumorosa. Contagiosa.

Alexej pensa che non amerà mai più nessuno nel modo in cui ha amato Michela. È che lei aveva questi occhi, questi occhi a forma di buco nero, che lo avevano catturato dalla prima volta che li aveva incontrati. Ci era caduto dentro.
Era stata Michela la prima volta a portarlo in un edificio in rovina.
Era notte e pioveva, e lei con quella sua energia contagiosa continuava a ridere. Avevano ballato e cantato a squarciagola in mezzo alla strada, stonati e felici, fino a che lei non gli aveva chiesto “Qual è una cosa che ti piace fare?”
Allora lui ci aveva pensato un pochino e aveva detto “I posti dove ci sono solo io”
E lei aveva sorriso. “Ti faccio un regalo” aveva detto.
L’aveva portato in un posto che lui non conosceva. Per entrare avevano dovuto scavalcare un cancello chiuso.
Lei aveva due bombolette nello zaino, una nera e una gialla, e gliene aveva porta una. Insieme avevano scarabocchiato qualcosa nel buio della notte.
“Sei bravo” aveva detto lei con ammirazione.
“Mi piacciono questo genere di cose” aveva risposto lui facendo spallucce.
Mesi dopo gli aveva confessato come quello fosse il suo posto segreto, il preferito, l’unico dove potesse essere sincera. Gliel’aveva donato, così.
Avevano fatto l’amore, poi, più tardi, per la prima volta. Non pioveva più e il sole stava sorgendo, e loro erano stanchi, ma non abbastanza.

Era poi finita, con Michela.

Quando Alexej è triste ama guardare le cose dall’alto e pensare. Lo trova catartico. Pensa a Michela, ma non è per lei che è salito su quel tetto. Michela è quel ricordo incredibilmente dolce e spaventosamente amaro che va bene per i momenti di tristezza.
Qualche ora prima Alexej era a casa, tornato da una corsa, e il suo telefono aveva squillato. Aveva risposto.
Non erano buone notizie.
In un secondo si era reso conto che gli avevano portato via il suo più grande sogno, e che nulla avrebbe mai potuto cambiare quel dato di fatto. La prospettiva della sua vita gli era passata davanti in un secondo e tutto gli era sembrato piatto e grigio. Non aveva più un sogno. Che senso aveva allora?
Era rimasto per un’ora disteso sul divano, sentendo il suo respiro farsi sempre più corto e la morsa attorno al cuore farsi sempre più stretta. Il panico era salito a piccole ondate come se fosse la risacca di una piccola insenatura aperta sull’oceano Atlantico, senza riuscire ad alzarsi, senza riuscire a fare niente. Quando la stretta si era fatta così insopportabile da fargli credere che sarebbe morto soffocato con uno sforzo immane si era alzato ed era uscito di casa, ricominciando a correre, cercando di scacciare via i pensieri con la fatica.
Per un po’ aveva funzionato. Funzionava sempre, almeno per un po’.
Laddove non riusciva la fatica, di solito riuscivano i graffiti. Ma c’erano dei momenti dove il mondo pareva troppo brutto persino per essere disegnato. La testa gli si aggrovigliava in una marea di fili neri e appiccicosi che impedivano a qualsiasi afflato artistico di uscire. Non riusciva a sfogarsi. Non restava che lasciarsi sopraffare.

Per fortuna esistono i tetti, gli edifici abbandonati, i tramonti. I pakistani sempre aperti che vendono
le birre a poco prezzo. Per fortuna che esiste la bellezza malinconica di un luogo in rovina.
La bellezza decadente di ciò che è rotto non dà mai fastidio: non ha pretese di perfezione. Sembra quasi dire: “Vedi? Non bisogna per forza essere aggiustati”.

Due corvi attraversano il cielo, dando un tocco di movimento a quel panorama sempre uguale.
La solitudine è un dono, quando è scelta.

Michela era sopra le righe.
Sempre, costantemente.
E in realtà non era vero niente.
Aveva tanta di quell’oscurità dentro, tanto di quello schifo, da poter spaventare chiunque ci entrasse
a contato. Perfino lei stessa.
L’anima di Michela era un buco nero come i suoi occhi, profondo come il Tartaro e maledetto come il Tartaro, pieno di mostri e di demoni pronti ad arrampicarsi fino a risalirla tutta completamente, uscendo dallo stomaco dove lei li relegava con forza, aggrappandosi alle sue costole per far presa, invadendole il cuore, il cervello, uscendo dalle cavità oculari e ricoprendo tutta la città come un esercito di ragni.
Michela combatteva tutti i giorni contro la sua anima. Ogni minuto, ogni secondo. Si vestiva con quella sua risata sguaiata e contagiosa, si lanciava ogni giorno in ogni nuova avventura. Si nutriva di adrenalina, cercando spasmodicamente ogni espediente che le potesse far sentire qualcosa. Il rischio. L’ecstasy. L’amore.
Alexej lo conosce bene questo buio. Ognuno ha il proprio modo di sfogarlo. Il suo è l’arte. Pagine e pagine piene di disegni incazzati, tristi, disperati. Tratti neri, rabbiosi, a penna, oppure appena sfumati, acquerelli, matite. Il buio di Alexej, che molte volte si chiama rabbia e sentimento di impotenza, quando raggiunge livelli così alti che un semplice foglio di carta non può bastare a contenerlo, allora si riversa ovunque per la città, sui marciapiedi, sui muri, sul pullman. È un’arte che grida all’ingiustizia. Un’arte che parla a tutti.
E l’arte vince sempre?
No.
Come poco prima.
La sua soluzione, allora, sono i tetti.

Michela non riusciva a capacitarsi di come ogni tanto potesse vincere anche quel mostro nero che si portava dentro. Più in alto voli, più ti fai male quando cadi, no? Ed era così: una vita sregolata lanciata ai cento all’ora, che ogni tanto si schiantava contro un muro.
Michela non sapeva reagire quando il buio vinceva. Si lasciava inghiottire. Completamente. Restava
sdraiata sul pavimento di camera sua, quel piccolo buco disordinato dove dormiva, che sembrava sempre ci fossero entrati i ladri da quanto casino c’era. Il resto della casa era colorato, bizzarro, pieno di oggetti strani, ma maniacalmente in ordine: una facciata, la sua risata. Nella camera da letto pareva fosse passato un tornado: la sua testa.
Michela ci si sdraiava in mezzo, a tutto quel disordine. Fissava il soffitto, cercando rifugio in qualche droga e nel silenzio. Sola coi suoi mostri. Fino a che non diceva basta, e allora si rialzava.
C’era voluto del tempo prima che permettesse ad Alexej di avvicinarsi a tutto quello schifo, ma poi era successo, senza che lei lo volesse, d’improvviso, una volta che non era riuscita a controllarlo.
Avevano passato una notte sul pavimento, fianco a fianco, supini. Ad un certo punto Michela si era girata su un fianco e si era rannicchiata contro di lui.
“Tutta questa merda passa più in fretta quando siamo assieme” aveva sussurrato, dopo ore di completo silenzio.
Lui l’aveva cinta con un braccio.
Era vero.
Quando erano assieme pareva ci fosse sempre un minuscolo fiammifero ad illuminare il buio.

Alexej siede su un tetto dietro ad uno squallido cavalcavia, guarda i binari vuoti della stazione e non sa neanche dire da quanto tempo è lì seduto, ma la birra è finita, le gambe sono indolenzite, e la sua testa rimbalza come una pallina da ping pong tra ciò che vede, ciò che sente e Michela.
Finalmente si muove: infila la mano nella tasca della giacca a vento e prende il telefono. Compone un numero.

“Pronto?” voce controllata, impersonale. La voce di chi non ha guardato chi fosse a chiamare e ha risposto come si risponderebbe ad una chiamata di lavoro.

“Sono io”

“Alex!” il contegno si smonta, il sorriso si percepisce anche solo dalla voce, insieme all’affetto e alla felicità nel sentire quella voce.

“Ciao Michi”

“Senti ma è successo qualcosa? Va tutto bene?” sopracciglia aggrottate. Preoccupazione. Niente da fare: Michela sa leggerlo come un libro aperto.

Alexej indugia.

“No” risponde.

“Arrivo” e chiude la chiamata.

Non c’è bisogno di dire dove. Non ce n’è mai stato bisogno.

“Ehi”

Una voce lo fa trasalire. Si volta, e suo malgrado sorride. Michela è come sempre: magra quasi da far spavento, una magrezza accentuata dai pantaloni larghi e pieni di tasche che è solita indossare, le braccia nude anche se fa freddo, piene di bracciali di cuoio. I capelli lunghi e ricci, indomabili. Scavalca il muretto e con un piccolo saltino è sul tetto.
Ci ha messo dieci minuti ad arrivare.

“Come facevi a sapere che ero qui?”

“Quando sei triste fai così. Come i gatti sopra il tetto.”

Alexej sorride. Michela si lascia cadere di fianco a lui, forse inconsciamente ne prende la stessa identica posizione.

“Allora? Che succede?”

“Avevo mandato il fumetto ad un altro concorso. Non gli è piaciuto.”

E Michela non dice niente di scontato.
Non dice “Sarà per la prossima volta”, non dice “Vali molto di più di uno stupido concorso”, non dice “Anche la Rowling è stata rifiutata da molti editori”.
Tra di loro passa una muta conversazione. Lei lo sa. Lo sa che è la tredicesima volta che Alexej prova a far conoscere il suo fumetto, tra concorsi e case editrici, e che è la tredicesima volta che viene rifiutato, nonostante quel fumetto raccolga tutto il suo talento, il suo impegno, la sua rabbia sociale, tutta la sua anima. Lo sa che sente di non avere più tempo, perché gli anni passano, e lui li sta passando chiuso nella cucina di un fast food di merda dove ricopre lo stereotipo del laureato senza lavoro, lo sa quanto lui si senta soffocare. Non c’è bisogno che lui parli della paura, della fiducia che ogni giorno diventa sempre più simile ad un ricordo, della sensazione di non valere niente, perché se ciò che per te è il messaggio più importante per tredici persone diverse non è degno di nota, allora significa che si è inutili, che tutto ciò che è stato fatto e che è stato vissuto non è servito a niente. A niente.

Non ci sarà una prossima volta. Un altro editore. E non gliene frega niente di valere più o meno di quel concorso del cazzo. La verità è che Alexej si sente chiuso da ogni lato, come se fosse in una di quelle stanze coi muri che si restringono.
All’inizio era come essere in una prateria sconfinata. Poi il primo rifiuto. Un muro. Il secondo. Un altro muro. Il sesto. Le pareti iniziano a stringersi. Il dodicesimo. Sente di non avere più aria. Il tredicesimo. Ecco cosa rimane: il suo futuro è una stanzetta quadrata di un metro per lato. Senza possibilità di vie d’uscita. 

“Ho portato della roba. E un paio di birre” dice Michela, colpendolo gentilmente con una spalla. Monta una canna velocemente, poi tira fuori due Ichnusa non filtrate dallo zaino e le stappa con l’accendino. Gliene porge una. Cin cin: i due vetri battono a mezz’aria.
Alexej beve un lungo sorso mentre Michela aspira golosamente il fumo che le riempie la bocca.
Restano così, in silenzio, a bere e a fumare, e a guardare la bellezza struggente del panorama davanti a loro.

“Grazie.”

Michela sorride.

“Lo sai” risponde solo. E continua a sorridere, mentre sorride anche lui. Un minuscolo fiammifero ad illuminar il buio.

“Senti ma, come mai ci siamo lasciati io e te?”

Alzata di spalle.

“Forse per non rovinare tutto”

“Già” sospiro. “Sembra un ottimo motivo.”

Le loro teste si appoggiano l’una all’altra.

Foto di Anna Parodi

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