
Da Erodoto a 300: gli eroi delle Temopili
«Così anche gli Spartani quando combattono singolarmente a nessuno al mondo sono inferiori: uniti, poi, sono i più valorosi di tutti gli uomini. Poiché, se è vero che sono liberi, non sono poi liberi in tutto: domina su di loro un padrone, la legge…»
(Erodoto, Storie, VII, 104)
300 è una graphic novel (romanzo a fumetti) scritta e disegnata nel 1998 da Frank Miller, celebre fumettista statunitense. Ben più nota al grande pubblico è la sua trasposizione cinematografica del 2007, diretta da Zack Snyder, con Miller stesso come produttore esecutivo e consulente. La storia, suddivisa in cinque capitoli (Onore, Dovere, Gloria, Guerra, Vittoria), è incentrata sulla battaglia delle Termopili (480 a. C.), uno dei momenti cruciali nello sviluppo della seconda guerra persiana, e sul coraggio di trecento Spartani, guidati dal loro re Leonida, nel sacrificare la loro vita per rallentare l’avanzata del nemico. L’episodio è materia dei libri di scuola, e 300 non offre né maggiori informazioni e dettagli sul corso degli eventi, né una riscrittura in chiave moderna. Anzi, spesso si lascia andare ad alcune libertà (soprattutto nella rappresentazione dei persiani e degli altri greci) che potrebbero far storcere il naso ai lettori più esperti. Vi chiederete dunque perché ho scelto di spenderci alcune parole. Ebbene, due sono i motivi fondamentali: il primo è che ogni grande evento storico del passato non è impermeabile alla retorica e alla poesia, che anzi gli dà la sua forma definitiva e lo consegna ai posteri come mito; il secondo è che 300, pur con le sue semplificazioni e le sue ideologie, nasconde uno spirito più ellenico di quanto ci si possa aspettare.

Scorrendo le pagine del fumetto, subito si nota che i colori sono filtrati, innaturalmente cupi. Dominano le tonalità del giallo (l’ocra del crepuscolo, l’oro dei Persiani, il bronzo degli scudi e degli elmi greci), del rosso (i mantelli degli Spartani) e soprattutto il nero pece delle ombre che ricoprono gli sfondi e solcano e modellano i lineamenti delle figure, massicce e squadrate. Un’atmosfera drammatica e opprimente, da resa dei conti: così doveva essere percepita dai Greci, che erano tutt’altro che compatti e uniti nel contrapporsi all’invasore. Erodoto (VII 138) riferisce infatti che, nel corso della spedizione, molte città e regioni avevano consegnato «terra e acqua» a Serse, cioè avevano compiuto formale atto di sottomissione, (le defezioni più clamorose e sentite da parte del resto dell’opinione pubblica saranno quelle dei Tessali e dei Tebani), e chi non lo aveva ancora fatto, alla notizia dell’incombere della guerra, era in preda al panico. Le forze dispiegate dal Gran Re per terra e per mare erano assolutamente eccezionali e impareggiabili. Il calcolo che propone Erodoto (VII 184-188) è un evidente esagerazione, ma restituisce l’immagine di un’orda pantagruelica di persone, animali, mezzi di trasporto, marchingegni, in grado addirittura di prosciugare interi fiumi. Il ricordo della rivolta delle colonie sulle coste dell’Asia minore e della terribile rappresaglia persiana era ancora fresco nella mente dei Greci; se avessero accettato volontariamente il giogo dei barbari, avrebbero goduto in fondo di pace, ricchezza e di relativa autonomia.
Tutti questi elementi sono ben presenti in 300. Nel primo capitolo, un flashback ci mostra l’arrivo dell’ambasceria di Serse a Sparta (in realtà, gli eventi qui descritti risalgono a Dario e alla prima guerra persiana: il figlio, memore dell’esperienza del padre, non invia alcun messaggero). Le richieste e le offerte dei Persiani sono le stesse che avrebbe potuto sentire un Greco di V secolo: «terra e acqua» in cambio di salvezza e prosperità. Gli Spartani, però, sono di un altro avviso.

L’uccisione degli ambasciatori – ricordata anche da Erodoto – era un sacrilegio inaudito per un uomo dell’antichità. Con quel gesto, Sparta prese una posizione netta e irreversibile. Insieme a lei Atene, che, nonostante nel fumetto venga descritta dagli Spartani come una città di effeminati, fu invece un altro baluardo (considerabile a buon diritto il più importante) della libertà della Grecia.
Ancora più interessanti, però, sono le conseguenze del comportamento degli Spartani, su cui 300 tace, ma con le quali si troverebbe in perfetta sintonia. Dopo aver compiuto l’empietà di cui sopra, infatti, sugli Spartani calò l’ira degli dei. Per placare gli oscuri presagi, due cittadini, Spertia e Buli, si offrirono di presentarsi al Gran Re e sacrificare le loro vite come compensazione. Giunti a Sardi, in Asia minore, furono ospitati del generale persiano Idarne, che chiese loro per quale motivo la loro patria fosse così ostinata a «rifiutare l’amicizia del re», che avrebbe portato grandi vantaggi e una posizione di dominio sulla Grecia. La risposta, per i due giovani, era scontata:
«O Idarne, il consiglio che rivolgi a noi non parte da un’uguale esperienza di ambedue le condizioni: tu parli per aver provata una delle due cose, ma dell’altra sei inesperto: sai, infatti, che cosa significhi essere schiavo, ma la libertà non l’hai ancora provata: non sai se sia dolce o no. Poiché, se soltanto l’avessi gustata, non solo con le lance ci consiglieresti di lottare per difenderla, ma anche con le scuri»
(VII, 135)
Questa incolmabile distanza fra due sistemi politici e valoriali differenti accomuna 300 ed Erodoto. Le Storie dello scrittore di Alicarnasso sono un’opera ben più complessa, profonda e in un certo senso affine alla sensibilità moderna. Erodoto infatti era un viaggiatore curioso e instancabile, che annotava i costumi dei popoli con cui veniva in contatto senza pregiudizi nei confronti del “barbaro” in quanto tale. Tuttavia, restò per lui inconfutabile che l’eleutheria era una prerogativa, quasi un’invenzione ellenica. L’estremo tentativo di corruzione operato da Serse prima dello scontro finale, con il quale 300 chiude un cerchio iniziato con quella prima fatale ambasceria, è la dimostrazione definitiva dell’incapacità di comprendere la natura di una tale ricchezza.
Il Serse a fumetti è un «re-dio» del tutto disinteressato alle ragioni dei suoi nemici, poco più di uno sfondo nell’economia dell’opera. Al contrario, il Serse di Erodoto si chiede talvolta perché avrebbe dovuto temere un territorio così frammentato e apparentemente inerme. Un giorno, dunque, pone la domanda, con ironia mista ad apprensione, a Demarato, vecchio re spartano in esilio, rifugiatosi, come tanti Greci prima e dopo di lui, presso la corte achemenide. La replica di Demarato è citata in apertura a questo articolo, e sono le parole che più rappresentano il significato che assunse questo conflitto per i diretti interessati e per il mondo occidentale. La libertà è la capacità e la possibilità per una comunità di autodeterminarsi attraverso delle norme. Nessun cittadino è al di sopra della legge, semplicemente perché essa è l’identikit della polis, il recinto entro cui l’uomo può definirsi appunto polites. Per Sparta, questa dimensione collettiva era portata all’estremo: in 300, la narrazione è scandita da alcuni commenti di un narratore esterno che è la voce stessa dei Trecento, un corpo solo e un’anima sola, un «noi» indivisibile. L’educazione comunitaria (agoghè) degli Spartani, infatti, era già considerata eccezionale nell’antichità dagli altri Greci, ed era stata idealizzata (talvolta con forzature storiche) da molti intellettuali filoaristocratici come modello di virtù militare e forza coesiva.

Miller è molto affascinato da questo aspetto: i suoi guerrieri spartani sono temprati da fatiche e rinunce estreme, silenziosi, severi, formidabili in battaglia, grazie alla loro compatta formazione oplitica di lance e scudi, segno della loro assoluta simbiosi. La loro vocazione alla guerra non è solo una necessità, ma un desiderio bramoso. Nelle parole di Leonida, «un’irrequietezza, un acuto senso delle cose», la percezione di essere di fronte a un appuntamento irrinunciabile con il destino. La morte gloriosa è il compimento migliore per l’esistenza di uno Spartano; una vita da pavido la vergogna e il lutto più insopportabile. Per questo motivo, gli Spartani fanno esercizi ginnici e curano il proprio corpo prima della battaglia, come alla vigilia di una festa (VII, 208); per questo motivo, nel momento dello scontro finale, congedano i loro alleati (VII, 220), per poter godere essi solamente di tale privilegio.
Protagonisti sovrumani, virili fino all’esasperazione, che si potrebbero adattare benissimo alla poesia celebrativa del V secolo, ma sono ben lontani dalla predilezione moderna per figure più sfumate e imperfette. Eppure, Miller è un autore di storie di supereroi. Lo ricorda lui stesso, a chi gli chiede nelle varie interviste (che potete rintracciare su YouTube) perché dedicare un fumetto a un soggetto così inconsueto. E in effetti, se poniamo a confronto i Trecento e Batman, uno dei personaggi cui Miller ha legato tanta della sua fortuna, possiamo intravedere più distintamente quella rivelazione, semplice ma viscerale, che il nostro autore ammette essere alla base della genesi dell’opera: un eroe non è nient’altro colui che fa il suo dovere, indipendentemente dalle conseguenze. L’approvazione degli ignavi è sempre postuma.



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