Inedito,  Prosa

La nebbia su Torino

Nebbioso. L’autunno è bello quando è nebbioso. Anzi, bello forse non è la parola più adatta. L’autunno è bello quando è colorato, quando le giornate sono fredde ma soleggiate e pare di respirare meglio, con l’odore della terra che riempie i polmoni. Quando fa freddo è più bello respirare, è più bello rendersene conto. Una boccata d’aria fredda la senti tutta: la senti che passa attraverso la laringe, la trachea, fino ad allargare ogni singolo alveolo. Certe giornate d’autunno, con il sole che colora il cielo di un azzurro brillante e l’aria pungente che sembra invitare a respirare, i colori delle foglie tutto attorno, l’abbraccio del caldo dei maglioni di lana e dei climatizzatori dei locali fumosi dove si può entrare a bere una cioccolata calda o un caffè, ecco, quelle sono le giornate che ti fan dire “è proprio bello l’autunno”.

Eppure.
Eppure l’autunno è più giusto, quando è nebbioso. Ecco. Giusto è la parola più adatta.

La nebbia. L’aria fredda e umida che si infiltra sotto sciarpe e giacconi, dentro le ossa attraverso i polmoni. La sensazione di bagnato. L’odore della pioggia che non sempre scende. Anche i colori delle foglie sono diversi quando c’è la nebbia. Gli alberi fradici paiono tristi, abbandonati, vorrebbero un abbraccio caldo anche loro forse, ma il problema delle giornate nebbiose è che fa troppo freddo persino per scaldarsi. Con le braccia ben infilate nelle tasche dei piumini gli uomini si concentrano sul ridurre al minimo i brividi che infidi li assalgono, ed è come se concentrassero tutta la loro massa in un punto vicino all’ombelico, nel tentativo di avvicinare ogni singola cellula, ogni singola molecola. Tirar fuori le mani da quei rifugi caldi pare una tortura, ed è scomodo persino prendersi per mano. I locali fumosi ci mettono un po’ a scongelare gli animi.

Eppure.
Eppure sembra giusto così. Anche la terra talvolta ha bisogno di sembrare triste, quella tristezza che non ti fa volere nessuno vicino. E in autunno tutto questo pare perfettamente giustificato.
Normalmente nessuno giustifica mai lo stare male.
Bisogna sempre star bene, se si sta bene allora va bene, no? È tutto a posto.
Fa paura il pensiero che qualche volta si possa anche non stare bene.
Sono scomodi, i momenti in cui non si sta bene.
La nebbia nella testa.
Pioggerellina sottile, non un bel temporale di quelli che puliscono l’aria e il cielo, non il sole che colora tutto di colori più accesi. Nella testa.
Il freddo infido che si infila nelle giunture articolari delle persone anziane. Nella testa.
È scomodo. E antipatico. Però.

L’autunno è giusto quando è nebbioso. Luca guarda verso il basso, dove in una giornata assolata avrebbe visto stendersi, in ordine, il tripudio di colori della collina, la città di Torino che si allarga sulla Pianura Padana come se le case e i palazzi fossero un’enorme macchia d’olio che qualche gigante distratto ha rovesciato sul suo tavolo verde, e poi più dietro le montagne svettanti verso il cielo, scintillanti di bianco nell’aria pura.

Ma oggi c’è nebbia, e Luca vede poco niente. I colori delle foglie sono sbiaditi, e si fondono qualche miglio più avanti in un grigio uniforme. Di Torino vede la punta della Mole Antonelliana. Delle Alpi intravede la sagoma.
Cerca un posto dove sedersi. È partito la mattina alle otto per arrampicarsi su fino al Faro della Vittoria, e non ci è arrivato. Si è fermato poco prima, in uno spiazzo immerso negli alberi dal quale si potesse vedere in basso.

A Luca piace questa camminata. Si ricorda di quando, bambino, la percorreva con suo papà per giocare con la neve. Quando ancora nevicava in modo che ne valesse la pena.
Respira.
Ha leggermente il fiatone.
Espira.
Il fiato esce dalla sua bocca in nuvolette bianche e umide. Caldo, si raffredda in breve tempo.
Ha le mani affondate nelle tasche del cappotto. In effetti neanche lui vorrebbe tirarle fuori, pensa con un mezzo sorriso divertito: è sempre così, si guardano gli altri, e alla fine si scopre che si è uguali a loro.

Cerca un posto dove sedersi.
Non ce ne sono.
Il tappeto di foglie umide sotto i suoi piedi è talmente fradicio da aver inzaccherato i suoi scarponi e l’orlo dei suoi pantaloni, in modo che adesso ogni volta che essi gli sfiorano i polpacci avverte un brivido di freddo.
C’è una radice che spunta dal terreno, poco distante dal punto in cui Luca è, immobile, concentrato nel ridurre i brividi che potrebbero scuoterlo.
La radice sembra un buon posto dove sedersi, pensa, cercando di scrollarsi di dosso quella forzata immobilità. È bagnata, ma tanto tutto è bagnato.

Se ci si siederà si bagnerà i pantaloni, e il freddo lo accompagnerà fino a ben dopo il suo rientro a casa.
Si siede. Cerca una nuova immobilità che gli permetta di stare al caldo. Il mezzo sorriso divertito si allarga un po’.
E poi lo sanno tutti che per scaldarsi occorre muoversi.

La radice è abbastanza larga da essere, tutto sommato, comoda, se si esclude il fatto che sia bagnata e che la corteccia che la ricopre sia già leggermente macerata. Ti macchierai i pantaloni. Sul sedere, per di più. Che posto scomodo dove sporcarsi.
Lo zaino lo appoggia ai suoi piedi. Ne tira fuori un quadernetto sgualcito, e dalla tasca una Bic nera. Lo apre a metà, ne sfoglia qualche pagina. Sull’ultima delle pagine non bianche si può vedere un disegno incompleto di Torino vista dall’alto. Luca sbuffa e volta la carta. Guarda davanti a sé, in alto. Disegna le foglie.

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