
Aurelio Agostino d’Ippona
“E come posso trovarti, se di te non ho memoria?”
Agostino, Confessioni, X, 18.26.
LA VITA:
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, una città della Numidia, in Africa Settentrionale; la madre Monica era una fervente cristiana, mentre il padre Fabrizio si convertì al cristianesimo solo prima di morire.
Studiò dapprima a Tagaste, in seguito a Madaura (antica città al confine fra Numidia e Getulia) e poi a Cartagine (in Africa settentrionale), dove, giovanissimo, unendosi a una donna di condizione sociale inferiore, ebbe un figlio illegittimo di nome Adeodato. A diciannove anni la lettura dell’Hortensius di Cicerone, opera per noi perduta che esortava allo studio della filosofia, gli causò una profonda crisi spirituale che lo portò ad accostarsi alla dottrina del manicheismo, la quale tentava di conciliare il carattere di trascendenza, proprio di ogni religione, con aspetti di razionalismo assai stimolanti per un intellettuale. Ma ne rimase presto deluso.
Iniziò a Tagaste la sua carriera di maestro di retorica, poi la continuò a Cartagine, e infine a Roma; grazie alla raccomandazione di Simmaco, il capo del gruppo senatorio pagano, ottenne la cattedra di retorica a Milano e vi insegnò dall’autunno del 384 fino al 386. Qui conobbe un personaggio ritenuto dallo stesso Agostino fondamentale per la sua maturazione religiosa e culturale: Ambrogio, vescovo di Milano.
Le sue prediche, insieme agli stretti rapporti con i circoli neoplatonici della città e alla presenza della madre che lo aveva raggiunto col figlio, lo portarono alla definitiva conversione. Nel 386 abbandonò l’insegnamento per dedicarsi completamente al servizio di Dio e, dopo alcuni mesi di vita ritirata a Cassiciaco (oggi Cassago Brianza, in provincia di Lecco), nel 387 si fece battezzare da Ambrogio.
Durante il ritorno in Africa, Agostino perse sua madre Monica ad Ostia. Un anno dopo, tornato a Tagaste, condusse una vita ritirata per tre anni e in questo arco temporale anche suo figlio Adeodato morì prematuramente. Aveva già incominciato a scrivere ed era molto conosciuto in Africa.
Nel 391 fu ordinato presbitero a Ippona (oggi Bona, in Algeria) dal vescovo Valerio, a cui successe nel 395: da questo momento, come capo della diocesi, predicò instancabilmente sia a Ippona sia a Cartagine e combatté contro varie sette ed eresie: in un primo momento, soprattutto contro i manichei e i donatisti, i quali, aspirando a una Chiesa perfetta, volevano che i cristiani che si erano piegati alle persecuzioni (consegnando i libri sacri alle autorità imperiali e/o facendo sacrifici pagani per salvarsi) fossero espulsi dalla Chiesa e, nel caso in cui questi fossero chierici, i sacramenti somministrati da loro non fossero più validi. Nella parte finale della sua vita, si scagliò anche contro i pelagiani, i quali sostenevano che gli uomini peccano per libera scelta, inserendosi così nel problema tra grazia (sulla quale insisteva maggiormente Agostino) e libero arbitrio.
Si preoccupò anche dei problemi concreti dei suoi fedeli, sempre più gravi e incombenti man mano che le strutture dell’Impero cedevano dinanzi alle invasioni barbariche, e cercò di elevare il livello morale e culturale del clero africano.
Morì il 28 agosto del 430, mentre Ippona era assediata dai Vandali, il cui re, Genserico, stava procedendo alla conquista dell’Africa Settentrionale.
Possidio, suo amico e discepolo, compose una sua biografia che, insieme alle Confessiones e le Retractationes (entrambe opere agostiniane), è la fonte primaria grazie a cui conosciamo la sua vita e le sue opere.
LE CONFESSIONES:
Agostino fu un autore molto prolifico e quasi tutte le sue opere furono composte per andare incontro a richieste specifiche o furono il risultato delle sue predicazioni.
Le Confessiones sono un testo suddiviso in 13 libri e composto all’incirca fra il 397 e il 400: con quest’opera Agostino non solo risponde alle varie critiche mossogli dai manichei e donatisti, ma coglie l’occasione per riflettere sulla sua esistenza passata e per ripercorrere vari episodi della sua vita, dialogando proprio con Dio, a cui si rivolge direttamente alla seconda persona singolare.
In forma di autobiografia spirituale, nei primi nove libri Agostino medita e ripensa agli avvenimenti trascorsi dalla sua nascita al ritorno in Africa (388), avvenuto dopo la sua conversione nel 386. Ciò che il teologo mette in risalto non sono tanto i fatti, quanto le reazioni che essi suscitano nel suo animo, così da far risaltare la sua evoluzione spirituale e tutti gli smarrimenti affrontati per arrivare alla piena coscienza di se stesso e di Dio.
Carattere prevalentemente filosofico hanno invece gli ultimi quattro libri: il decimo e l’undicesimo trattano della memoria e del tempo, mentre il dodicesimo e il tredicesimo sono di argomento esegetico, quindi di studio e di interpretazione critica delle Sacre Scritture.
Infine, il titolo Confessiones deriva dal latino confessio, con cui s’intende sia la confessione e il riconoscimento dei propri peccati sia la lode rivolta a Dio che li perdona: l’uomo, in quanto peccatore, deve identificarsi con Agostino, che usa proprio la sua vicenda personale come punto di partenza per indagare e trattare il rapporto tra uomo e Dio.
CONFESSIONES, IV, 4.7- 11.16:
Il quarto libro tratta la giovinezza di Agostino, e in particolare i nove anni, dal 373 al 382, della sua piena adesione al manicheismo. I fatti non sempre sono presentati in ordine cronologico e questo ha portato a pensare alcuni studiosi che questo quarto libro sia una sorta di giustapposizione di episodi, senza alcuna unità compositiva; pochi, al contrario, ritengono che Agostino consideri questo arco temporale unito e che disponga semplicemente gli avvenimenti secondo un criterio diverso da quello cronologico. La questione è ancora oggi dibattuta.
L’episodio che andiamo a trattare è quello della commovente amicizia fra il giovane Agostino e un suo coetaneo che rimane innominato, o perché non lo riteneva interessante per i lettori o per preservare l’intimità e la riservatezza di questa sua vicenda personale, che possiamo collocare fra il 374/375 e l’autunno del 376, quando il teologo insegnava ancora nella sua città natale Tagaste.
Dopo averlo incontrato, Agostino tenta di convincerlo a diventare seguace anche lui del manicheismo, intenzione che, almeno inizialmente, sembra essere andata a buon fine; ma l’amico improvvisamente si ammala e, dal momento che lo si credeva in punto di morte, viene battezzato.
Riesce, però, miracolosamente a sopravvivere e Agostino rimane al suo fianco, non si allontana mai, tanto gli è affezionato. Un giorno tenta di scherzare con lui riguardo il battesimo che ricevette quando era privo di sensi, ma il coetaneo sussulta e gli dice che, se vuole restare suo amico, non deve più parlargli così: Agostino rimane sorpreso della sua reazione, pur non intavolando una discussione per non compromettere la precaria salute dell’amico.
Ma, nonostante ciò, qualche giorno dopo viene riassalito dalle febbri e muore.
La prematura scomparsa dell’amico provoca in Agostino un dolore e una confusione così grandi che né la città paterna né i luoghi familiari riescono a colmarli: le cose conosciute, nell’attesa temporanea, rimandano alla presenza, ma con l’assenza definitiva della morte ricordano soltanto ciò che si è perso. E nemmeno le nuove conoscenze lo aiutano a superare la sofferenza, dal momento che l’abbandono dell’esclusività del rapporto non implica il trovare una soluzione per la perdita subita.
Questa smisurata sofferenza sarebbe derivata, secondo Agostino, dal suo essere
incapace di amare gli uomini umanamente.
Perciò fugge via da Tagaste, in cui tutto gli ricordava l’amico defunto, e va a Cartagine.
In seguito il teologo affermerà che solo fondando la natura dei rapporti umani, e dunque caduchi, in Dio sarà possibile superare la precarietà insista nell’esistenza: il dolore è onnipresente nell’amicizia che non ha il suo fondamento in Dio.

4.7 In quegli anni – avevo cominciato a insegnare nella mia città natale – m’ero fatto un amico che la comunanza degli studi mi rendeva particolarmente caro, un mio coetaneo e come me nel fiore della giovinezza. Con me era cresciuto da bimbetto e avevamo frequentato la scuola insieme e insieme giocato. Ma non mi era mai stato così amico – sebbene neppure allora si trattasse di una vera amicizia, poiché vera non è se non quando tu stesso la cementi, tra persone che sono legate tra loro, per opera dell’amore diffuso «nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci è stato dato». Ma era dolce assai, maturata al calore degli studi comuni. Al punto che, distogliendolo dalla vera fede, che da ragazzo professava senza grande entusiasmo o profondità, l’avevo gettato in quei vaneggiamenti superstiziosi e rovinosi che facevano piangere mia madre per me [1]. Delirava ormai la sua mente assieme alla mia, e la mia anima non poteva fare più a meno di lui. Ed ecco che tu, incalzando da presso chi fugge da te, «Dio di vendetta» e fonte, insieme, di misericordia, che in mirabili modi a te ci converti, ecco lo strappasti da questa vita, quando appena da un anno durava la nostra amicizia, per me la più dolce di tutte le dolcezze della mia vita di allora.
4.8 Chi potrebbe enumerare i tuoi meriti, anche solo quelli che ha esperito in sé solo? Cosa facesti allora, Dio mio, e quanto è insondabile l’abisso dei tuoi decreti? Caduto in preda alle febbri, egli giacque a lungo esanime in un sudore di morte e, poiché s’era persa ogni speranza, fu battezzato in stato d’incoscienza [2]: io non diedi peso alla cosa, nella persuasione che la sua anima avrebbe ritenuto ciò che aveva preso da me piuttosto che ciò che avveniva a un corpo privo di sensi. Ma andò in tutt’altro modo. Si riprese, infatti, e parve fuori pericolo: e subito, appena potei parlargli – ciò che avvenne assai presto, non appena fu in grado di farlo: non mi allontanavo mai da lui, tanto legati eravamo l’un l’altro -, tentai di scherzare con lui, convinto che anch’egli avrebbe fatto come me, su quel battesimo che aveva ricevuto in totale assenza di pensiero e sensi. Ma lui già sapeva di averlo ricevuto. E trasalì d’orrore come davanti a un nemico e mi avvertì, con sorprendente, repentina libertà di giudizio, che se volevo restare suo amico dovevo smetterla di parlargli a quel modo. Io allora, stupefatto e confuso, soffocai ogni reazione, in attesa che guarisse e, riacquistate le forze, io potessi discutere con lui ciò che volessi. Ma fu strappato alla mia follia per potersi serbare, in te, alla mia consolazione: qualche giorno appresso, in mia assenza, fu riassalito dalle febbri e morì.
4.9 Un dolore che ottenebrò il mio cuore, e dovunque guardavo era la morte. E la mia patria era un tormento, e la casa paterna un’incredibile infelicità, e tutto ciò che con lui avevo condiviso senza di lui diventava immenso strazio. I miei occhi lo cercavano dappertutto, ma lui non c’era: e odiavo tutte le cose, perché non lo avevano e non potevano più dirmi: «Ecco, arriva», come quando viveva ed era assente. Ero diventato un grande enigma a me stesso e chiedevo alla mia anima perché fosse così triste e perché mi turbasse tanto, e non sapeva cosa rispondermi. E se le dicevo: «Spera in Dio», giustamente non mi obbediva, poiché l’uomo carissimo che aveva perduto era più vero e migliore del fantasma [3] in cui le ordinavo di sperare. Solo il pianto mi era dolce [4] e aveva preso il posto del mio amico «nella delizia» del mio cuore.
5.10. […] Non speravo affatto che lui tornasse in vita, né questo chiedevo con le mie lacrime, ma semplicemente soffrivo e piangevo. Ero infatti infelice e avevo perso ogni gioia. O è invece il pianto cosa amara che diletta a causa del disgusto che proviamo per ciò di cui un tempo abbiamo goduto e che ora disprezziamo?
6.11. Ma perché dico questo? Non è il momento, adesso, di far domande, bensì di confessarsi a te. Ero infelice, e infelice è ogni animo avvinto da passione di cose mortali, che è dilacerato quando le perde e solo allora avverte l’infelicità di cui era infelice anche prima di averle perdute [5]. Tale ero io a quel tempo e piangevo amarissimamente e nell’amarezza riposavo. A tal punto ero infelice, e l’infelice vita mia stessa m’era più cara di quell’amico. Volevo, sì, mutarla, non perderla in sua vece, non so se avrei fatto per lui quel che si narra di Oreste e Pilade [6] – ammesso sia vero – che volevano morire l’uno per l’altro perché per loro peggiore della morte era non vivere insieme. Ma era nato in me anche un so quale sentimento opposto e avevo, insieme, un insopportabile tedio di vivere e la paura di morire. Quanto più lo amavo, credo, tanto più la morte che me lo aveva tolto odiavo e temevo come ferocissima nemica e la pensavo capace di annientare in un attimo tutti gli uomini, se era stata capace di farlo con lui. Ero proprio in questo stato, me lo ricordo. […] Mi meravigliavo che gli altri mortali vivessero, dopo ch’era morto colui che avevo amato quasi fosse immortale, e mi meravigliavo ancor di più che, essendo io un secondo lui stesso, lui fosse morto e io ancora vivo. Ha ben detto qualcuno del suo amico che era «la metà dell’anima sua»[7]. Io sentivo infatti che la mia anima e la sua erano state un’anima sola in due corpi, e perciò mi faceva orrore la vita, perché non volevo vivere a metà, e perciò forse temevo di morire, perché non morisse per intero colui che avevo tanto amato.
7.12 O follia, incapace di amare gli uomini umanamente! O stolto uomo, insofferente dei limiti delle cose umane! Come ero io a quel tempo. Ecco perché ribollivo, sospiravo, piangevo, mi turbavo e non avevo né pace né consiglio. Portavo infatti un’anima spezzata e sanguinante, che non sopportava di essere portata da me, e non trovavo dove posarla. Non in ameni boschetti, non in giochi e canti essa trovava pace, non in luoghi soavemente olezzanti né in lauti conviti, non nei piaceri del letto e della tavola, non infine nei libri e nella poesia [8]. Tutto mi faceva orrore, persino la luce, e qualsiasi cosa non fosse lui m’era insostenibile e fastidiosa, eccetto il gemito e il pianto: in essi soli trovavo un po’ di requie. Ma non appena l’anima mia ne veniva distolta, m’opprimeva un gran fardello d’infelicità. A te, Signore, avrebbe dovuto sollevarsi, da te essere curata, lo sapevo, ma non volevo né potevo, soprattutto perché per me non eri nulla di solido e fermo quando ti pensavo. Non eri tu, infatti, ma un vano fantasma e il mio errore era il mio dio. Se tentavo di posarla lì perché riposasse, scivolava via nel vuoto e ricadeva su di me, e io ero rimasto a me stesso un luogo di infelicità, dove non potevo stare né allontanarmi. Dove infatti avrebbe potuto il mio cuore sfuggire al mio cuore? Dove sfuggire io a me stesso? Dove non avrei potuto seguire me stesso? [9] E tuttavia fuggii dalla mia patria. Poiché i miei occhi lo cercavano meno dove non erano soliti vederlo – e da Tagaste andai a Cartagine [10].
8.13 Il tempo non perde tempo, e non s’aggira oziosamente per i nostri sensi: mirabili opere compie nel nostro animo. Ecco, veniva e passava «di giorno in giorno», e venendo e passando m’inoculava altre speranze e altri ricordi e a poco a poco mi restituiva alle antiche forme di piacere, mentre quel mio dolore perdeva terreno; ma subentravano, se non altri dolori, altre cause di dolore. […]
9.14 È questo che si ama negli amici, e lo sia ma al punto che la coscienza si sente in colpa se non ama chi la riama o non riama chi la ama, nient’altro chiedendo al corpo dell’amato se non qualche segno di affetto. Di qui il lutto alla morte di un amico, e le tenebre del dolore, e il cuore madido di una dolcezza mutata in amarezza, e dalla vita perduta di chi muore la morte di chi resta in vita. Beato chi ama te, l’amico in te, il nemico per te. Perché il solo che non perda chi gli è caro è colui al quale tutti sono cari in colui che non si perde [11]. […]
10.15 «Dio delle virtù, volgici a te e mostrarci il tuo volto, e saremo salvi.» Poiché dovunque io volga l’anima dell’uomo, dovunque, tranne che in te, trova dolore, per belle che siano le cose che trova al di fuori di te e di sé stessa. Tali infatti neppure sarebbero, se non venissero da te: nascono e muoiono, e nascendo cominciano ad essere, e crescono per giungere a perfezione, e giunte a perfezione invecchiano e muoiono. Forse non tutte invecchiano, ma tutte muoiono. Quando dunque nascono e cercano di essere, quanto più celermente crescono per essere, tanto più s’affrettano a non essere. Questa è la loro legge. Questo hai concesso loro, poiché son parti di cose che non sono tutte insieme, ma tutte cedendo e subentrando le une alle altre formano l’universo di cui sono parti. È appunto così che si attua il nostro discorso tramite segni sonori. Non ci sarebbe infatti alcun discorso se una parola, una volta emessi i suoni, non si tirasse indietro per far posto a un’altra. Ti lodi per queste cose l’anima mia, «Dio creatore dell’universo», ma in esse non resti impigliata col vischio di un amore dei sensi del corpo. Esse vanno infatti dove vanno sempre, per non essere più, e la dilaniano con desideri ammorbanti, giacché lei vuole essere e ama riposare tra le cose che ama. Ma in esse non c’è posto per farlo, perché non ci restano: fuggono, ma chi può tener loro dietro coi sensi del corpo? O chi può controllarle, quand’anche fossero a tiro? Tardo è infatti il senso della carne, perché è senso della carne: questo è il suo limite. Basta allo scopo per cui è stato fatto, non basta ad altro scopo, a trattenere cose che trascorrono da un inizio determinato a una determinata fine. Dalla tua stessa parola con cui sono state create si sentono dire: «Da qui fino a qui».
– Agostino, Confessiones IV, 4.7-11.16. (Traduzione di Gioachino Chiarini)
4.7 In illis annis, quo primum tempore in municipio, quo natus sum, docere coeperam, comparaveram amicum societate studiorum nimis carum, coaevum mihi et conflorentem flore adulescentiae. Mecum puer creverat et pariter in scholam ieramus pariterque luseramus. Sed nondum erat sic amicus, quamquam ne tunc quidem sic, uti est vera amicitia, quia non est vera, nisi cum eam tu agglutinas inter haerentes tibi caritate diffusa in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. Sed tamen dulcis erat nimis, coacta fervore parilium studiorum. Nam et a fide vera, quam non germanitus et penitus adulescens tenebat, deflexeram eum in superstitiosas fabellas et perniciosas, propter quas me plangebat mater. Mecum iam errabat in animo ille homo, et non poterat anima mea sine illo. Et ecce tu imminens dorso fugitivorum tuorum, Deus ultionum et fons misericordiarum simul, qui convertis nos ad te miris modis, ecce abstulisti hominem de hac vita, cum vix explevisset annum in amicitia mea, suavi mihi super omnes suavitates illius vitae meae.
- Quis laudes tuas enumerat unus in se uno, quas expertus est? Quid tunc fecisti, Deus meus, et quam investigabilis abyssus iudiciorum tuorum ? Cum enim laboraret ille febribus, iacuit diu sine sensu in sudore laetali et, cum desperaretur, baptizatus est nesciens me non curante et praesumente id retinere potius animam eius quod a me acceperat, non quod in nescientis corpore fiebat. Longe autem aliter erat. Nam recreatus est et salvus factus, statimque, ut primo cum eo loqui potui (potui autem mox, ut ille potuit, quando non discedebam et nimis pendebamus ex invicem) temptavi apud illum irridere, tamquam et illo irrisuro mecum baptismum, quem acceperat mente atque sensu absentissimus. Sed tamen iam se accepisse didicerat. At ille ita me exhorruit ut inimicum admonuitque mirabili et repentina libertate, ut, si amicus esse vellem, talia sibi dicere desinerem. Ego autem stupefactus atque turbatus distuli omnes motus meos, ut convalesceret prius essetque idoneus viribus valetudinis, cum quo agere possem quod vellem. Sed ille abreptus dementiae meae, ut apud te servaretur consolationi meae: post paucos dies me absente repetitur febribus et defungitur.
- Quo dolore contenebratum est cor meum , et quidquid aspiciebam mors erat. Et erat mihi patria supplicium et paterna domus mira infelicitas, et quidquid cum illo communicaveram, sine illo in cruciatum immanem verterat. Expetebant eum undique oculi mei, et non dabatur; et oderam omnia, quod non haberent eum, nec mihi iam dicere poterant: “Ecce veniet”, sicut cum viveret, quando absens erat. Factus eram ipse mihi magna quaestio et interrogabam animam meam, quare tristis esset et quare conturbaret me valde, et nihil noverat respondere mihi. Et si dicebam: “Spera in Deum” , iuste non obtemperabat, quia verior erat et melior homo, quem carissimum amiserat, quam phantasma, in quod sperare iubebatur. Solus fletus erat dulcis mihi et successerat amico meo in deliciis animi mei .
5.10. […] Neque enim sperabam revivescere illum aut hoc petebam lacrimis, sed tantum dolebam et flebam. Miser enim eram et amiseram gaudium meum. An et fletus res amara est et prae fastidio rerum, quibus prius fruebamur, et tunc ab eis abhorremus, delectat?
6.11. Quid autem ista loquor? Non enim tempus quaerendi nunc est, sed confitendi tibi. Miser eram, et miser est omnis animus vinctus amicitia rerum mortalium et dilaniatur, cum eas amittit, et tunc sentit miseriam, qua miser est et antequam amittat eas. Sic ego eram illo tempore et flebam amarissime et requiescebam in amaritudine . Ita miser eram et habebam cariorem illo amico meo vitam ipsam miseram. Nam quamvis eam mutare vellem, nollem tamen amittere magis quam illum et nescio an vellem vel pro illo, sicut de Oreste et Pylade traditur, si non fingitur, qui vellent pro illo invicem vel simul mori, quia morte peius eis erat non simul vivere. Sed in me nescio quis affectus nimis huic contrarius ortus erat et taedium vivendi erat in me gravissimum et moriendi metus. Credo, quo magis illum amabam, hoc magis mortem, quae mihi eum abstulerat, tamquam atrocissimam inimicam oderam et timebam et eam repente consumpturam omnes homines putabam quia illum potuit. Sic eram omnino, memini. […] Mirabar enim ceteros mortales vivere, quia ille, quem quasi non moriturum dilexeram, mortuus erat, et me magis, quia ille alter eram, vivere illo mortuo mirabar. Bene quidam dixit de amico suo: dimidium animae suae . Nam ego sensi animam meam et animam illius unam fuisse animam in duobus corporibus , et ideo mihi horrori erat vita, quia nolebam dimidius vivere, et ideo forte mori metuebam, ne totus ille moreretur, quem multum amaveram.
7.12 O dementiam nescientem diligere homines humaniter! O stultum hominem immoderate humana patientem! Quod ego tunc eram. Itaque aestuabam, suspirabam, flebam, turbabar, nec requies erat nec consilium. Portabam enim concisam et cruentam animam meam impatientem portari a me, et ubi eam ponerem non inveniebam. Non in amoenis nemoribus, non in ludis atque cantibus nec in suave olentibus locis nec in conviviis apparatis neque in voluptate cubilis et lecti, non denique in libris atque carminibus adquiescebat. Horrebant omnia et ipsa lux et quidquid non erat quod ille erat, improbum et odiosum erat praeter gemitum et lacrimas; nam in eis solis aliquantula requies. Ubi autem inde auferebatur anima mea, onerabat me grandi sarcina miseriae. Ad te, Domine, levanda erat et curanda, sciebam, sed nec volebam nec valebam, eo magis, quia non mihi eras aliquid solidum et firmum, cum de te cogitabam. Non enim tu eras, sed vanum phantasma et error meus erat deus meus. Si conabar eam ibi ponere, ut requiesceret, per inane labebatur et iterum ruebat super me, et ego mihi remanseram infelix locus, ubi nec esse possem nec inde recedere. Quo enim cor meum fugeret a corde meo? Quo a me ipso fugerem? Quo non me sequerer? Et tamen fugi de patria . Minus enim eum quaerebant oculi mei, ubi videre non solebant, atque a Thagastensi oppido veni Carthaginem.
8.13 Non vacant tempora nec otiose volvuntur per sensus nostros: faciunt in animo mira opera. Ecce veniebant et praeteribant de die in diem et veniendo et praetereundo inserebant mihi spes alias et alias memorias et paulatim resarciebant me pristinis generibus delectationum, quibus cedebat dolor meus ille; sed succedebant non quidem dolores alii, causae tamen aliorum dolorum. […]
9.14 Hoc est, quod diligitur in amicis et sic diligitur, ut rea sibi sit humana conscientia, si non amaverit redamantem aut si amantem non redamaverit, nihil quaerens ex eius corpore praeter indicia benevolentiae. Hinc ille luctus, si quis moriatur, et tenebrae dolorum et versa dulcedine in amaritudinem cor madidum et ex amissa vita morientium mors viventium. Beatus qui amat te et amicum in te et inimicum propter te . Solus enim nullum carum amittit, cui omnes in illo cari sunt, qui non amittitur. […]
10.15 Deus virtutum, converte nos et ostende faciem tuam, et salvi erimus . Nam quoquoversum se verterit anima hominis, ad dolores figitur alibi praeterquam in te, tametsi figitur in pulchris extra te et extra se. Quae tamen nulla essent, nisi essent abs te. Quae oriuntur et occidunt et oriendo quasi esse incipiunt et crescunt, ut perficiantur, et perfecta senescunt et intereunt: et non omnia senescunt et omnia intereunt. Ergo cum oriuntur et tendunt esse, quo magis celeriter crescunt, ut sint, eo magis festinant, ut non sint. Sic est modus eorum. Tantum dedisti eis, quia partes sunt rerum, quae non sunt omnes simul, sed decedendo ac succedendo agunt omnes universum, cuius partes sunt. Ecce sic peragitur et sermo noster per signa sonantia. Non enim erit totus sermo, si unum verbum non decedat, cum sonuerit partes suas, ut succedat aliud. Laudet te ex illis anima mea , Deus, creator omnium , sed non in eis infigatur glutine amore per sensus corporis. Eunt enim quo ibant , ut non sint, et conscindunt eam desideriis pestilentiosis, quoniam ipsa esse vult et requiescere amat in eis, quae amat. In illis autem non est ubi, quia non stant; fugiunt, et quis ea sequitur sensu carnis? Aut quis ea comprehendit, vel cum praesto sunt? Tardus est enim sensus carnis, quoniam sensus carnis est: ipse est modus eius. Sufficit ad aliud, ad quod factus est, ad illud autem non sufficit, ut teneat transcurrentia ab initio debito usque ad finem debitum. In verbo enim tuo, per quod creantur, ibi audiunt: “Hinc et huc usque”.
NOTE AL TESTO
[1] Spesso la madre Monica piange per la deviazione religiosa di suo figlio.
[2] Il battesimo veniva ritardato sovente nei tempi antichi, ma era somministrato quando si era in pericolo di morte.
[3] Il dio manicheo è una costruzione immaginaria e non spirituale nel senso tecnico del termine: è di materia celeste, quindi un minimo materiale lo è.
[4] Agostino avverte che il pianto tutt’al più consola il dolore.
[5] L’uomo è infelice non solo perché perde la persona che ama, ma anche perché ogni essere e cosa terrena, in quanto tale, è destinata a essere perduta; e la perdita contingente ce ne fornisce la piena consapevolezza.
[6] Luogo comune nelle trattazioni antiche dell’amicizia: Oreste era il figlio di Agamennone e Pilade era suo cugino e fedelissimo amico. Qui la fonte sembra essere il Laelius de amicitia o/e il De finibus bonorum et malorum di Cicerone.
[7] Qui Agostino si riferisce al poeta Orazio che, nelle Odi I, 3, definisce Virgilio come animae dimidium meae (metà dell’anima mia).
[8] Né i sensi né l’intelletto riescono a colmare questo dolore.
[9] Motivo, quello della fuga da se stessi, che ritroviamo in grandi autori latini come Orazio, Seneca e Lucano.
[10] La fuga dalla città natale è una fuga dalle emozioni e dai sentimenti che lì vi sono maturati. Agostino si trasferisce a Cartagine nell’autunno del 376 per passare agli insegnamenti superiori.
[11] Sono tre gli oggetti dell’amore: Dio, l’amicizia (l’amico) e la carità (il nemico). Dio però ha un rilievo particolare perché entra come riferimento anche nell’amore per gli altri due e li sottrae alla caducità.
PER APPROFONDIRE
- Agostino, Confessioni, a cura di Roberta De Monticelli, Milano 1991
- Agostino, Confessioni/ Volume II/ LIBRI IV-VI, a cura di Patrice Cambronne, Luigi F. Pizzolato e Paolo Siniscalco e traduzione di Gioachino Chiarini, Fondazione Lorenzo Valla 1993
- Conte G.B., Letteratura latina/ L’età imperiale, Milano 2012
- Simonetti M. e Prinzivalli E., Storia della letteratura cristiana antica, Bologna 2010
*L’immagine in copertina è Visione di sant’Agostino, di Vittore Carpaccio, 1552, tempera su tela, credit


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