
Il vero volto di Atlantide
Il mito
Il mito di Atlantide gode di una fortuna davvero eccezionale nella cultura di massa e allo stesso tempo è uno dei suoi protagonisti più sfuggenti e indefinibili. Tutti vi associano l’immagine di un’antica città sprofondata nel mare, ma non c’è nessun’altra caratteristica che può dirsi universalmente riconosciuta, né il grande pubblico è in grado di individuare anche solo sommariamente la provenienza di tale leggenda.
Incertezze che sono alla base del suo fascino: il desiderio umano di spingersi sempre oltre i confini della propria memoria e dei propri orizzonti culturali e geografici vi trova terreno fertile per le sue fantasie. Nel corso dei secoli videro la luce numerosi tentativi di ricerca, furono scritti trattati dal dubbio valore scientifico sull’argomento, spesso si usò Atlantide come protagonista di sofisticate utopie o per giustificare le proprie teorie antropologiche e politiche (“campioni” di questa triste competizione furono purtroppo gli intellettuali nazisti). La letteratura e l’arte non furono da meno: la città perduta venne riproposta in numerosi romanzi, film, videogiochi, a partire da Ventimila leghe sotto i mari (1871) fino al classico Disney Atlantis – il regno perduto (2001).
Platone
Potrei allora sorprendervi nel rivelarvi che Atlantide ha una data di nascita, una precisa fisionomia, un creatore. Si tratta di Platone, il celebre filosofo greco, che vi dedicò una parte iniziale del Timeo e un intero trattato, il Crizia, purtroppo giunto a noi incompleto. Pagine degne di essere ricordate, non solo perché è quasi certo che fu Platone stesso a inventare di sana pianta la vicenda (pur con dei probabili precedenti letterari e storici in mente), ma anche e soprattutto per la vividezza del suo narrare, che trasse in inganno molti dei suoi lettori.
Come tutte le favole che si rispettino, questa storia parla di un passato lontanissimo, e fu tramandata oralmente di generazione in generazione. Crizia, il nostro narratore nella finzione platonica, la sentì da suo nonno, Crizia il Vecchio; suo nonno da Solone, il primo grande legislatore di Atene; Solone da dei sacerdoti della città di Sais, sul delta del Nilo. L’Egitto, infatti, protetto dagli effetti benefici del suo fiume, sfuggiva all’infinito ciclo di nascita e morte che la natura imponeva sulle comunità umane con i suoi capovolgimenti e i suoi cataclismi. La sua grandezza e immutabilità non si misurava solo attraverso i suoi monumenti, ma soprattutto attraverso i suoi ricordi ancestrali.

Il racconto
Ottomila anni prima di Platone, gli dèi camminavano ancora fra gli uomini e gli uomini erano loro consimili. Nello spartire la Terra ai famigliari a lui fedeli, nuova generazione di dominatori, Zeus assegnò a Poseidone un’enorme isola, situata al di là delle colonne d’Ercole, in mezzo all’Oceano che circondava l’intero pianeta. Le coste erano ripide, scoscese tutto intorno, ma una sterminata e accogliente pianura dominava all’interno, cinta da una corona di montagne che la riparava dai venti di settentrione. Le miniere erano cariche di metalli preziosi, i boschi fornivano legname in abbondanza e la terra produceva ogni sorta di radice o frutto per il nutrimento di uomini e animali.
Quando Poseidone volse lo sguardo al suo regno, però, vide una fanciulla. Si chiamava Clito. I suoi genitori erano morti entrambi prima di poterla dare in sposa a qualcuno. Gli dèi, si sa, non sono estranei alle passioni, all’ira più furente e all’amore più dolce. Il cuore del sovrano del mare fu conquistato dalla giovane orfana; i due amanti giacquero insieme su una collina erbosa. Come un consorte premuroso, il dio volle proteggere la sua diletta e la sua casa, e dal suo desiderio nacque una città. La collina, il talamo della loro unione, divenne un’acropoli; intorno ad essa sorsero concentriche tre cinte di mare e due cinte di mura, di ampiezza sempre più mastodontica. Da quell’atto creativo divino, Atlantide si sviluppò con un’energia e un acume ingegneristico altrettanto sovrumano: le cinte di terra vennero unite con ponti, quelle di mare tagliate da canali; si ersero mura e torrioni; si scavarono bacini. Ma l’opera più mirabile avvenne all’esterno delle cinte, con un lunghissimo canale che congiunse l’ultima cinta al mare, e con un ciclopico sistema di irrigazione, una griglia di canali di inaudita precisione ortogonale che suddivideva tutto il territorio circostante fino alle montagne.

In questo modo Atlantide si apriva al resto del mondo. Ecco che subito la vediamo brulicare di vita, trasformarsi in un’abnorme metropoli, un formicaio di case e mercati che si addossavano alle mura. Dentro, nelle cinte, tutto un susseguirsi di caserme, ippodromi, ginnasi, vasche, templi, fino ad arrivare al bagliore d’argento e d’oro del santuario di Poseidone e di Clito, al centro dell’acropoli, circondato da statue e da boschi lussureggianti, alimentati dalla doppia fonte di acqua calda e fredda fatta sgorgare dal dio.
Dieci re, cinque coppie di gemelli, si erano suddivisi Atlantide e il suo territorio e lo avevano trasmesso alla loro discendenza. Il loro potere era assoluto, perché proveniva dal dio, e tuttavia alla legge del dio essi erano vincolati inflessibilmente, in una condizione di uguaglianza e di amicizia reciproca. Regolarmente essi si riunivano presso il tempio di Poseidone e celebravano un insolito rituale. Lasciavano liberi dei tori all’interno del recinto sacro e li inseguivano. Il primo animale che veniva catturato lo sgozzavano e lo offrivano in olocausto sulla colonna dove era incisa la legge, bevendo poi tutti insieme da una coppa una stilla del suo sangue. Suggellata così la loro fratellanza, attirata così la benevolenza dell’avo divino, l’assemblea si riuniva per discutere di eventuali torti subiti dall’uno e dell’altro e per decidere come amministrare la giustizia. Tutto questo avveniva a notte fonda, senza alcuna luce che non fosse il riflesso delle vesti azzurre dei re colpite dai raggi della luna, in un’atmosfera solenne, di attesa fiduciosa per l’alba, che avrebbe rivelato infine le loro deliberazioni, ma allo stesso tempo carica di mistero, di una certa inquietudine primitiva.
Con queste ricchezze e questi ordinamenti Atlantide si allargò verso est, prendendo il controllo dell’Africa settentrionale fino all’Egitto e dell’Europa continentale fino alla Tirrenia, alle porte della Grecia. Un impero di proporzioni esagerate, incomparabili, di fronte al quale spariva qualunque altra potenza. Ma chi ha una qualche esperienza della storia, autentica o fantastica che sia, greca o meno, sa che sull’eccessiva prosperità, sul successo apparentemente illimitato, si abbatte sempre la scure del fato. Il Crizia si interrompe proprio qui, con la promessa di una punizione certa della superbia di Atlantide e con un consesso divino pronto a definirne i dettagli. In fondo, non c’era molto altro da dire, il destino di Atlantide ci è già noto. Meglio ricordarla così, come simbolo delle fortune e delle opere degli uomini, su cui però mai potrà allontanarsi l’ombra di una minaccia, la crepa nel muro dorato.
*L’immagine in copertina è E ci stiamo provando, di Nicholas Roerich, 1922, credit

Jules Verne, Ventimila leghe sotto i mari
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Platone, Timeo
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