Articolo,  Pareri sciolti

Il dottor Zivago e l’Ucraina: quanto vale un ideale?

Ecco che cos’era la vita, che cos’era l’esperienza, che cosa inseguivano coloro che andavano in cerca d’avventure, ecco a che cosa mirava l’arte: ritornare a casa propria, ai propri affetti, riprendere a vivere.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago

Quando è scoppiata la guerra in Ucraina ero pienamente immersa nella lettura del Dottor Zivago di Boris Pasternak ed è stato a dir poco straniante. Il romanzo – per cui è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura a Pasternak – è ambientato a cavallo tra Prima guerra mondiale e Rivoluzione d’ottobre.

Quando Jurij Andreevič Živago ancora bambino perde la madre, la Russia è ancora un impero e la dinastia Romanov comanda serenamente. Quando il dottor Zivago si accascia colto da un infarto, sotto la pensilina gremita di gente di un tram, l’Europa ha appena scoperto che le guerre lampo non esistono, l’Unione sovietica è ormai una realtà tangibile, il popolo russo è sconvolto da anni di fame e miseria, lotte intestine e autodistruttive. La vita di quest’uomo ricopre un periodo abbastanza intenso e centrale non solo della storia russa, ma di tutta l’Europa. Anche oggi, nel febbraio-marzo 2022, noi tutti siamo odierni dottor Zivago, testimoni senza meriti né colpe, di un nodo della storia russa, che è anche centrale per tutta Europa, se non per tutto il mondo.

Sono la persona meno adatta a fare un’analisi storica degli eventi, sia quelli accaduti a inizio ‘900, sia quelli attuali; quindi non la farò, né mi interessa farla. Vorrei solo fermarmi un attimo a riflettere, a leggere queste pagine stupende, magistralmente scritte, alla luce della nostra realtà. Perché se è vero che la letteratura può essere evasione, torre eburnea, in cui l’intellettuale può rifugiarsi, per sfuggire crocianamente alla storia, l’arte è al tempo stesso l’arma più potente per leggere il presente.

Annotando semplicemente che leggere della miseria profonda che la guerra comporta tra le pagine di un poeta russo, che parla del popolo russo, che muore di fame, leggere la fatica esistenziale della sopravvivenza, dello sfasciarsi dell’umano, di fronte all’inumano terrore dell’altro, della lotta tra fratelli e parenti, fucilazioni, incendi punitori… Leggere di tutto questo, con in mente le immagini del popolo ucraino invaso da quegli stessi russi, i cui bisnonni hanno provato sulla pelle il dolore della guerra, è qualcosa che dà i brividi.

Penso che se la belva che dorme nell’uomo si potesse fermare con una minaccia, la minaccia della prigione o del castigo d’oltretomba, poco importa quale, l’emblema più alto dell’umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso.

Boris Pasternak, Il dottor Zivago

Ma andando oltre, la domanda che vorrei pormi è questa: quanto vale un ideale?

Senza voler banalizzare la storia, che è complessa e sfaccettata, c’è però un elemento comune alle due situazioni, ed è la presenza di un’idea, un concetto astratto, che se posseduto da una persona abbastanza capace di reificarlo, di instillarlo nella mente di altri uomini, di farlo crescere, più o meno artificialmente, questo ideale può anche molto velocemente diventare un nuovo demone, potente spirito di immenso potere.

Non dico che siano le idee, di per sé entità benigne senza macchia, a scatenare gli orrori dell’umanità, ma spesso sono la scintilla prima del Big Bang, solo il primo afflato di un respiro cosmico, l’impercettibile agitarsi della vita, che in un concatenarsi di eventi, sfugge quasi immediatamente al controllo di chi l’ha partorita. Non è solo questione di retorica e propaganda, queste vengono dopo, quando l’idea ha ormai una forza fuori controllo; solo a posteriori, ormai vittime accecate dell’ideale, tentiamo di giustificarla, di darne un ritratto accettabile.

Putin

Leggevo giusto ieri questo articolo uscito su «Internazionale»: L’inquietante conversazione tra Putin e Macron sulla guerra, scritto da Pierre Haski per «France Inter» e tradotto in italiano da Andrea Sparacino. Al di là del fatto in sé quello che mi ha colpito è stata questa frase (corsivo mio):

Potremmo anche comprendere che il capo di un regime autoritario “venda” una versione fantasiosa della realtà al suo popolo, per convincerlo della bontà della guerra. In questo caso la narrativa è quella di un regime nazista che con il sostegno dell’occidente minaccerebbe la Russia. […] Di contro il fatto che in un incontro da lui stesso cercato con un capo di stato estero Putin ripeta la stessa propaganda grossolana risulta sorprendente. Putin non può pensare nemmeno per un secondo che Macron, che conosce personalmente Zelenskyj, possa credere che l’ex comico ebreo sia alla guida di un regime nazista.

Pierre Haski parla della guerra in Ucraina come di una «guerra psicologica», vale a dire basata sulla propaganda, sull’ostinazione di Putin a mostrarsi volutamente «fuori controllo». Anche Putin è finito vittima dello stesso ideale che aveva elaborato lui?

Strelnikov ovvero Pasha Antipov

Una delle cose che mi ha sempre affascinato di più del leggere i romanzi russi è il sistema dei nomi. Ogni persona russa ha tre forme: il nome, il patronimico e il cognome; oltre che una serie di modi per abbreviare il nome in nomignoli, che si danno tra loro gli amanti o coi bambini. Questa grande costellazione di termini con cui ci si può riferire a una persona sembra riflettere suggestivamente una serie di personalità che coabitano lo stesso corpo; a seconda dell’interlocutore, del grado di vicinanza che lega i due individui, cambia il nome e inevitabilmente anche la persona.

Pasha Antipov è il marito della protagonista Lara, già suo amore infantile, poi padre della piccola Katenka. Stretto nella vita familiare decide di arruolarsi nell’esercito russo per combattere la Prima guerra mondiale. Inizia tutto con una piccola idea, di sottrarsi a un ambiente che lo fa troppo spesso dubitare dell’amore di Lara, da lì tutto degenera.

Circola la voce che sia morto in battaglia e questo gli permette di diventare generale dell’esercito bolscevico, mutando nome in Strelnikov (ogni nuovo nome è una nuova identità, pagata con il pegno di un ulteriore frammentarsi dell’anima). Pasha era un giovane studioso timido e bonario, disposto a tutto per la sua ossessione infantile, acutamente attratto dalle grandi questioni; Strelnikov è un generale sanguinario, con la mente annebbiata da un ideale, da cui non riesce a sottrarsi. Quell’ideale, quello del comunismo, di una società più giusta, senza ricchi aristocratici, senza zar dittatoriali, sembra una cosa buona, sembra la ragione umana che trionfa sull’ingiustizia. Tuttavia, lasciata fiorire, è diventata il demone capace di portare alla morte migliaia di persone; è diventata la scintilla che ha infuocato d’odio anche la mente lucida e calma di un uomo come Pasha.

Conclusione

È da un po’ di anni che si parla di morte delle ideologie, spesso con fare malinconico, a volte con senso di liberazione. Eppure siamo lontani da questo risultato, come lo siamo dalla ripromessa pace mondiale a cui fingiamo di aspirare. Non si possono fermare queste scintille, non è facile inibirle, né controllarle, soprattutto quando appartengono a uomini potenti, a cui bastano davvero poche parole, per creare situazioni irreversibili.

Un’idea è la cosa più forte che abbiamo, ma è anche la più pericolosa, perché si alimenta del nulla, non ha bisogno di evidenze, di prove. Un’idea cresce anche in mancanza di ossigeno, di acqua. Il nostro cervello funziona secondo il meccanismo del bias di conferma, che ci protegge dallo sconforto, ma può condurci all’autodistruzione. L’abbiamo visto con la pandemia di Covid, l’abbiamo visto con questa guerra e l’aveva già visto Pasternak nella sua terra: l’idea è ciò che di più inconsistente esista al mondo, perciò è sottovalutata, ma è l’essere vivente meno bisognoso di mezzi di sostentamento, che può sopravvivere anche di fronte a tutto il mondo che si oppone e per questo andrebbe maneggiata con cura.

Un’idea un concetto un’idea
Finché resta un’idea è soltanto un’astrazione
Se potessi mangiare un’idea
Avrei fatto la mia rivoluzione.

– Giorgio Gaber, Un’idea, da Dialogo tra un impegnato e un non so

 *L’immagine in evidenza è Gassati, di John Singer Sargent, 1919, olio su tela, credit

Il dottor Zivago di Boris Pasternak

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