
Carlo Levi e l’importanza del mito
Il mito, nel suo significato primario, è tutto l’apparato che sta alla base di una civiltà: non c’è umanità organizzata e viva senza mito. Il mito è l’insieme dell’immaginario, del turbamento e delle rispose che a questo turbamento dà un popolo. Per sua natura, inoltre, non è mai certo, né unico, si rinfrange e si moltiplica: per il mito il principio di non contraddizione non esiste.
L’uomo agli albori dei tempi deve consacrare un senso alla propria via: deve trascrivere l’impressione di stare nello stato di natura, di avere a che fare con la voce del divino che sta nella natura, dando così uno statuto (tangibile) di narrazione a tutto ciò che non comprende (la pioggia, la morte, il dolore).
Carlo Levi è un umanista e queste cose le sa, è un umanista come era quasi inevitabile esserlo nella prima metà del Novecento, quando ancora ci sembrava che l’unico modo per capire la realtà fosse proprio il mito. Prima di tutto, però, è un pittore e un medico, un uomo con un carattere energico, che sa trarre il meglio da ogni occasione.
Durante il Fascismo, Levi milita contro il regime, venendo incarcerato nel 1934 e poi mandato al confino politico nel 1935, in Lucania, a Cagliano, vicino Matera. Di quest’esperienza ci racconta nel suo celebre romanzo Cristo si è fermato a Eboli (compralo qui), che uscirà poi nel 1945 per Einaudi.
È la prima e ultima prova romanzesca di Levi, che – come già detto – è e si sente prima di tutto pittore. Scrive il Cristo perché non può dipingere, dopo il confino si rifugia a Firenze tra il 1943 e il 1944 e, da ebreo, deve restare nascosto, sentendo in strada le marce fascista. È in questo momento che, ad alcuni anni di distanza, scrive della sua esperienza di confinato, parla di un popolo ancora fortemente legato al mito, anzi totalmente eretto sul mito. In questa maniera incredibile che è la letteratura: lui stesso crea un poema mitico di questo popolo.
I briganti
Carlo Levi entra in stretto contatto con gli abitanti di Cagliano, li conosce a fondo, diventa anche il loro medico. Questi contadini e queste povere donne sono abbandonati a se stessi o peggio, perché nemmeno possono arrangiarsi da sé con quel poco che hanno, perché lo Stato per loro è una pura catastrofe a cui non si può sfuggire, come lo sono stati prima di lui i re e gli imperatori.
Su questo sentimento ancestrale di anarchia repressa, di distanza da un potere che può solo togliere e non dà mai nulla (e in questo potere rientra anche la Chiesa, che non è venerata né rispettata più di «Roma»); su questo sentimento si innesta la prima traccia mitica di cui vorrei parlare: il brigantinaggio.
Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria.
I racconti dei briganti, che tutti conoscono, sono per i grassanesi come i fili di un poema omerico. Sono la loro storia, l’unica che conta, non hanno senso patriottico e a loro non importa nulla di Garibaldi. Però sentono vicini alle loro radici i briganti. Prima di tutto perché erano dei loro, contadini, poveri disperati; in secondo luogo perché hanno dato voce e sangue a quella rabbia che ribolle loro dentro per tutta la vita.
I briganti per questi uomini sono la loro Eneide e Odissea, la loro guerra d’indipendenza: una libertà non da un potere costituito, ma dal potere tout court, dalle leggi che non sono quelle di natura, dalla religione che misconosce gli spiriti e i demoni. Il loro credo è legato a quella terra argillosa e arida, quella è la loro realtà: il tessuto di narrazioni orali che si tramandano dall’alba dei secoli, fuor di questo – ciò che lo stato chiama vera realtà – non è altro che finzione. Solo il mito è reale, in ciò quindi anche i briganti, paladini mitici dell’anarchia primordiale (che in realtà è potere ctonio della terra, profonda radicazione nel tempo eterno dell’oggi). Non per niente – Come ci racconta Levi – questi uomini hanno decine di nomi per parlare scherzosamente del domani, perché in realtà per loro il domani è solo fatto di tragedia e incertezza.

La religione
In questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è un dolore terrestre, che sta per sempre nelle cose, Cristo non è disceso. Cristo si è fermato a Eboli.
Come detto la religione in queste terre ha un’importanza assolutamente marginale, i contadini non conoscono la Bibbia, non vanno a messa, battezzano i loro figli molto tardi, spesso solo perché sono in punto di morte. Adorano con ardore la Madonna nera di Viggiano, ma come simbolo, non rappresenta per loro la Vergine Madonna cristiana, buona e caritatevole.
La Madonna nera non è, per i contadini, né buona né cattiva; è molto di più. Essa secca i raccolti e lascia morire, ma anche nutre e protegge; e bisogna adorarla. In tutte le case, a capo del letto, attaccata al muro con quattro chiodi, la Madonna di Viggiano assiste, con i grandi occhi senza sguardo nel viso nero, a tutti gli atti della vita.
È insomma una divinità quasi «ctonia», un retaggio pagano e quindi anche il rapporto con lei è dettato è mediato da quello con la natura, vero fulcro dell’esistenza dei contadini.
Magia e spiriti
Nel mondo dei contadini non si entra senza una chiave di magia.
Infine Carlo Levi ci parla ancora di un altro aspetto dell’enorme apparato mitico di questo popolo. Nel paese di Cagliano ci sono circa venti streghe e una si occupa della casa dello scrittore, pulendo e cucinando: Giulia la Santarcangelese. Queste donne hanno sulle spalle un sapere millenario, fatto di formule magiche, filtri, riti e invochi. Conoscono tutte le leggi che regolano l’universo e con esse sono in rapporti abbastanza stretti da poterle domare.
I contadini non diffidano della medicina tradizionale, anzi non vedono nessuna contraddizione nel farsi curare contemporaneamente da un medico e da una strega con impacchi ed erbe.
Inoltre, questo popolo crede in tutta una serie di spiriti e demoni, che abitano i boschi, le grotte ed anche le case. Bellissima è la descrizione di Levi dei monachicchi, bambini morti senza battesimo.
I monachicchi sono esseri piccolissimi, allegri, corrono veloci qua e là, e il loro maggior piacere è di fare ai cristiani ogni sorta di dispetti.
Assieme a loro ricorda anche degli angeli della casa, che calano di notte per proteggere l’uscio dalle forze maligne. Insomma questa mitologia è variegata e vivissima, commistione di culture diversissime tra loro: classico-pagana, orientale e cristiana. Il pensiero mitico di questi popoli gli permette di far coesistere tutte queste forse e queste esperienze assieme, senza difficoltà o contraddizioni, perché essi conoscono il principio della varietà del mito, della molteplicità, sanno che il mondo è un moltiplicarsi di riverberi diversi, che assieme costituiscono la vera realtà: la più bella, immaginosa, la più godibile.
*L’immagine in copertina è un dipinto di Carlo Levi.
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