Aftalina,  Articolo

La disperazione come condanna e salvezza

Ci sono eventi che vanno oltre la nostra comprensione. La vita, nella sua implacabilità, ci pone davanti a degli accadimenti così forti, che sentiamo morire una parte di noi nel processo. In effetti, succede. Una parte di noi viene strappata via e rimane solo un angosciante vuoto. Poco dopo, quest’ultimo viene colmato dal grumo denso e scuro della disperazione.  Non sembra esserci via d’uscita. Andiamo avanti come automi in cerca di qualcosa che lenisca in parte il macigno posto dentro lo stomaco. Che cosa possiamo fare? Le strade che si possono percorrere hanno diverse sfaccettature e nel corso della nostra vita possiamo attraversarne molteplici, anche diametralmente opposte tra di loro. Scremando il più possibile, però, ne possiamo individuare due principali, che racchiudono in sé la fitta rete di scelte che percorriamo inconsciamente e consapevolmente ogni giorno.

L’accettazione e l’arte

La prima strada: conviverci, purgare, abbracciare il dolore e renderlo parte di noi, “comprenderlo“. Prenderci cura di lui e, così, di noi stessi. Ascoltarlo, ascoltarci. È vero, magari preferiremmo evitare e dimenticare, ma a volte non c’è scelta, poiché il dolore è come un filtro sulla vita che non si può più togliere. Un po’ come il caso di James O’Barr. 18 anni son troppo pochi per affrontare la perdita della propria ragazza in un incidente stradale. Soprattutto per una commissione richiesta da te. Decide, così, di concentrare tutto il dolore della perdita, il rimorso e la disperazione, oltre al suo arruolamento nel corpo dei Marines, ne Il Corvo (acquistalo qui), opera che lo consacra nell’ambiente fumettistico.

Eric Draven, il protagonista del fumetto, assiste allo stupro e all’uccisione della sua ragazza da parte di una banda di rapinatori. Lui è il primo a essere colpito e lasciato in fin di vita, morendo poco dopo in ospedale. Esattamente un anno dopo Eric resuscita dalla sua tomba, spinto dal desiderio di vendetta per la morte della sua amata Shelly, oltre ai poteri sovrannaturali donatigli dall’entità rappresentata dal Corvo. È spietato, pazzo e in preda alla più cieca furia causata dal dolore. Non si fa scrupoli a scovare uno per uno i rapinatori e a ucciderli, vendicando l’inferno vissuto l’anno precedente.  Le tavole de Il Corvo sono oscure, ai limiti della crudezza, caratterizzate dalla bellezza struggente dell’arte unita al dolore. Caratterizzate da una rabbia, che per nessuna ragione al mondo sembra pronta a spegnersi, se non canalizzando le proprie emozioni in un’opera che le faccia rivivere adeguatamente. L’impegno e la profusione di O’Barr per questo scopo traspaiono in maniera cristallina, tanto che il lettore è portato fin dalle prime pagine a empatizzare totalmente con l’autore, condividendo la consapevolezza che certi eventi non possono cambiare, ma lasciano comunque un dolore e sensi di colpa estenuanti. Un fiume dal quale prima o poi tutti nella vita ci lasciamo trasportare, in cerca di risposte che possiamo solo supporre, poiché probabilmente non arriveranno mai. Galleggiamo nell’attesa di riprendere le forze e iniziare a nuotare di nuovo.

L’unica cosa che si può fare è andare avanti e l’arte, in questo caso, si è dimostrata uno dei miglior veicoli per incanalare il dolore, il rimpianto e la colpa. Per sollevare il peso della sofferenza, spingendolo verso un piano più alto, creando un qualcosa di permanente nel tempo.

Di certo l’arte è sempre un ottimo strumento per sfogarsi e far esprimere il proprio dolore in “prodotti” in grado di essere compresi e condivisi da un vasto pubblico. Anche solo un mezzo per far ascoltare la propria voce, quando le situazioni che viviamo quotidianamente ci lasciano senza parole e senza la forza di reagire. Un vero e proprio grido d’allarme, che pone la luce su una condizione di lenta e inesorabile disperazione, uno scivolamento verso la più profonda oscurità, in cui, nel peggiore dei casi, si decide di privarsi del soffio vitale donato agli esseri umani.

Oltre il limite

La seconda strada. Si dice che Dio, il Destino o l’Universo non facciano vivere alle persone situazioni più pesanti di quanto possano sopportare. Citando, il Werther goethiano: 

La natura umana […] ha i suoi limiti: essa può sopportare la gioia, la sofferenza, il dolore fino a un certo punto, e soccombe se questo è oltrepassato.

Se la sofferenza è costante, al punto tale da non vedere una via di uscita, anche la volontà più forte potrebbe venir spezzata. La vita inizia a perdere lentamente colore, insieme al proprio senso, soprattutto se risulta doloroso soddisfare lo scopo per cui sentiamo di esistere su questa terra.

Proprio come Ian Curtis, frontman del gruppo post-punk Joy Division, suicidatosi a soli 23 anni, il 23 maggio 1980, alla vigilia dell’inizio del tour statunitense della band. Nonostante la giovanissima età, Ian in poco tempo aveva raggiunto traguardi che molti otterrebbero solo dopo decenni. Si era sposato a 19 anni con una compagna di scuola e avevano avuto una bambina poco più di un anno dopo. I Joy Divison riscuotevano molto successo nella scena musicale underground inglese, soprattutto dopo l’uscita del primo e, oggi per noi, iconico album, Unknown Pleasures.

Eppure, in questo quadro idilliaco di successi lavorativi e personali, si nascondeva una cruda disperazione, che ha accompagnato il cantante attraverso i suoi ultimi anni di vita, come un mantello pesante e oscuro sulle spalle. È difficile cantare ed esibirsi ai concerti se si soffre di epilessia fotosensibile, non trovate? Soprattutto se le crisi ti lasciano inerme e sfiancato dalle convulsioni. I farmaci non sembrano aiutare in alcun modo, alimentando ancora di più l’idea, che non ci sia speranza, per quanto giovani e forti ci sentiamo, non c’è controllo. Si è come degli automi spenti e non si sa minimamente quando si verrà animati di nuovo e quanto male farà. Oltre a questo, si aggiunge il dolore di un matrimonio forse troppo affrettato, che sembra giungere a un inesorabile binario morto, nonostante ci sia la volontà di sistemare le cose, però accompagnata da un’incapacità di riconoscere e lasciar andare ciò che non è più giusto per noi.

All’epoca, questi potrebbero essere stati i pensieri di Ian e bisogna dire che erano magistralmente espressi nei testi delle canzoni dei Joy Division, probabilmente come unico mezzo per dar luce a un dolore invisibile. Oscurità e malinconia sono solo due delle sfaccettature che troviamo nelle canzoni poliedriche del gruppo, forse ancora più accentuate nell’album postumo alla morte del cantante, Closer. L’esperienza d’ascolto è paragonabile all’essere immersi in un oceano nero dove, a volte, si trae forza dall’oscurità che ci circonda, altre invece, ci si sente affogare nella disperazione. Nonostante i 40 anni di distanza le canzoni dei Joy Division sono ancora in grado di raggiungerci e lasciare un segno con le stesse intense emozioni che le hanno fatte nascere. La sofferenza di Ian pian piano ci scorre dentro le vene, andando a riempire, e si spera a lenire, i vuoti lasciati dalle nostre ferite.

Mother I tried please believe me

I’m doing the best that I can

I’m ashamed of the things I’ve been put through
I’m ashamed of the person I am
“Isolation”, dall’album Closer

Ma di tutti gli esempi che si potevano prendere, perché proprio quelli di James O’Barr e Ian Curtis? Semplicemente, perché sono interconnessi dalla disperazione. In origine, James O’Barr voleva intitolare ogni capitolo de Il Corvo come una canzone dei Joy Division, ma a livello pratico non fu sempre possibile. All’interno del fumetto ci sono comunque omaggi alla band e anche ai The Cure, perché la produzione musicale di entrambi i gruppi ha influenzato molto la stesura del fumetto. Inoltre, lo stesso Eric cita in una frase la canzone Disorder dei Joy Division.

Ciò che colpisce di più, probabilmente, è il fatto che una produzione musicale, nata dalla disperazione più profonda, che ha portato un artista a percorrere fino alla fine la “seconda strada”, abbia influenzato a tal punto un’opera fumettistica e il suo autore, che invece ha attraversato la “prima strada”. Un dolore che, per quanto generato da situazioni diverse, sembra stritolare allo stesso modo. Una sofferenza che si trasforma passando da persona a persona, toccando però sempre le stesse corde dell’anima. Sta a noi vedere in quale forma d’arte decidere di canalizzarla ed esprimerla per sfogarci, come sta a noi vedere quale strada consapevolmente e inconsciamente percorrere. Odiandoci nel processo ed essendo indulgenti verso noi stessi, arrabbiandoci e perdonandoci. Non importa, è la nostra strada. Senza dimenticare che, per quanto possiamo percepirla diversamente rispetto agli altri, nella sofferenza non siamo soli. In questo senso la disperazione può essere sia condanna sia salvezza.

P.S.: ovviamente dietro al lavoro di James O’Barr e alla musica dei Joy Division c’è molto di più rispetto a ciò che ho cercato di riassumere in questo articolo. Vi invito volentieri a recuperarlo, per vedere se vi lascia un segno in qualche modo. Secondo me, ne vale la pena.

*L’immagine in copertina è il dipinto Disperazione, di Edvard Munch, 1894

Lascia una risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *