
Il sogno di Ozymandias, tra miliardari e professori di chimica
Orfani del passato
Una delle grandi variabili della storia dell’umanità è il modo in cui interpretiamo e produciamo tracce del nostro passaggio sulla Terra. Ai giorni nostri – proiettati verso un futuro dalle potenzialità inimmaginabili, ma allo stesso tempo incerto e angoscioso – siamo ormai orfani del passato; un passato assume ai nostri occhi l’austerità della Storia con la S maiuscola, erudizione da salotto o da cena di famiglia, oggetto da museo, drammaticamente silenzioso o peggio parodiato per aberranti giochi politici.
Fino alle soglie della contemporaneità, invece, il monumento aveva molta più rilevanza non solo come mezzo di comunicazione efficace, ma anche come consacrazione di un modello, di un riferimento culturale che restava vivo nella coscienza della comunità per secoli: il segreto dell’immortalità era compiere imprese memorabili, come rivelava l’eterno Utnapishtim a Gilgamesh.
Shelley, Ozymandias
Di questo era consapevole il poeta inglese Percy Bisshe Shelley, quando nel 1817 rifletteva a casa del suo amico Horace Smith sul senso delle recenti scoperte napoleoniche in terra d’Egitto. Meditava su un passo della Biblioteca Storica di Diodoro Siculo (compralo qui), che riporta un’iscrizione di una statua di Ramses II (1303-1212 a.C.), celebre faraone della XIX dinastia:
Sono Osimandia, il re dei re. Se qualcuno vuole sapere quanto grande io sia e dove giaccio, superi qualcuna delle mie imprese.
Ispirato da queste parole, Shelley creò un sonetto. Un racconto quasi onirico, in un ritmo più simile a quello di una prosa melodica che di una poesia, in cui il volto di pietra del sovrano diventa simbolo delle aspirazioni di gloria dell’uomo, del loro significato e della loro fragilità.
«Incontrai un viandante di una terra dell’antichità,
Che diceva: “Due enormi gambe di pietra stroncate
Stanno imponenti nel deserto… Nella sabbia, non lungi di là,
Mezzo viso sprofondato e sfranto, e la sua fronte,
E le rugose labbra, e il sogghigno di fredda autorità,
Tramandano che lo scultore di ben conoscere quelle passioni rivelava,
Che ancor sopravvivono, stampate senza vita su queste pietre,
Alla mano che le plasmava, e al sentimento che le alimentava:
E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine”».
«I met a traveller from an antique land
Who said: Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert. Near them on the sand,
Half sunk, a shatter’d visage lies, whose frown
And wrinkled lip and sneer of cold command
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamp’d on these lifeless things,
The hand that mock’d them and the heart that fed.
And on the pedestal these words appear:
“My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!”
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare,
The lone and level sands stretch far away.»
Ozymandias. Forse è proprio il titolo della poesia, solenne ed esotico, a decretarne la fortuna nella sua epoca e nella cultura pop. Tra i vari riferimenti più o meno approfonditi due meritano di essere citati.
Adrian Veidt, un miliardario
Il primo è l’omonimo supereroe della serie a fumetti Watchmen, della DC Comics: Ozymandias è qui l’alter ego mascherato di Adrian Alexander Veidt, uno degli uomini più ricchi della Terra, da molti riconosciuto come il più intelligente. L’ispirazione a Shelley è dichiarata, tanto che ogni volume della serie Before Watchmen incentrato sulla sua storia ha come sottotitolo un verso del componimento, che diventa riassunto e chiave di interpretazione della parte di vicenda narrata. Ad esempio, il primo volume (I met a traveller…), che descrive le origini del personaggio, ha il suo punto di svolta in una visione, che riecheggia quella della poesia, in cui Adrian viene folgorato dalla grandezza dell’eredità dei faraoni, e da essa viene spinto ad allargare i suoi progetti di salvezza (e conquista) al mondo intero. Adrian sente profondamente la spinta dei propri modelli e il desiderio di competere con loro; da sovrani come Ramses II non ricava solo l’aspetto e la caratterizzazione della sua identità segreta, ma anche la volontà di consegnare una precisa memoria di sé (nella serie si immagina che stia costruendo mentalmente la sua autobiografia).
Walter White, un chimico
Il secondo caso, invece, meno smaccato dal precedente ma più vicino al senso autentico dell’opera di Shelley, è la penultima puntata della serie TV Breaking Bad, chiamata appunto Ozymandias (nella versione italiana Declino). Il protagonista, Walter White, è un professore di chimica in un liceo di Albuquerque, New Mexico, intrappolato in un lavoro avvilente, una vita familiare monotona e condizioni economiche precarie. Quando gli viene diagnosticato un tumore ai polmoni allo stadio avanzato, inizia a cucinare e a vendere metanfetamina per guadagnarsi i soldi per le cure e mettere da parte dei fondi per la sua famiglia. Dopo alcune esitazioni, Walter si fa coinvolgere sempre di più dal mondo del traffico di stupefacenti, al punto da diventare il più importante spacciatore dello Stato. Walter giustifica di fronte a se stesso e agli altri questa sua scelta con la preoccupazione per la sua famiglia, ma ben presto appare evidente che sono la ricerca di gloria e il desiderio di riscatto nei confronti di chi ha messo in ombra il suo valore a muoverlo. Associa a sé un soprannome con cui farsi conoscere nell’ambiente (“Heisenberg”), si compiace della qualità eccezionale del suo prodotto e della fama e ricchezza di cui gode impunito, per conservare le quali arriva a manipolare i propri alleati e far ammazzare o uccidere egli stesso potenziali minacce. Quando tutti i rivali sembrano essere fuori gioco e i contrasti con la moglie risanati, una casualità lo smaschera e lo porta ad essere braccato da suo cognato, agente della DEA.
L’episodio in questione descrive proprio la sua rovinosa caduta. In pochi minuti, in mezzo al deserto (lone and level sands…), Walter perde tutto: la sua famiglia, i suoi soldi, il suo potere. Il mito di Heisemberg, grottesco e terribile al tempo stesso (l’attore è incredibile nel restituire questa duplice aura che ricopre i gesti di Walt), presenta il conto al suo ideatore; resta un uomo morente e solo, circondato dalle macerie di vite spezzate o irrimediabilmente corrotte.
In fondo, Ozymandias, più che l’esaltazione delle testimonianze del passato, è il ritratto della decadenza, della vittoria della Natura sull’uomo, i cui tentativi di affermarsi sugli altri, che siano suoi contemporanei o le future generazioni, mostrano da sé stessi la loro vanità e la loro arroganza:
The hand that mock’d them and the heart that fed.
*L’immagine in copertina è Félix Teynard, Séboûah, Temple, Colosse Et Sphinx De La Partie Gauche De L’Avenue, 1851–52.


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