Articolo,  Pareri sciolti

Filli de anima: maternità alternative e tradizione

Tradizione

Una delle parole più abusate del nostro tempo, slogan di dubbie politiche populiste, baluardo da difendere, ultima roccaforte della cosiddetta decenza: eppure non sempre abbiamo chiaro cosa sia e, come concetto, sfugge a tutti i nostri tentativi di ingabbiarlo.

Tradizióne s. f. [dal lat. traditio -onis, propr. «consegna, trasmissione», der. di tradĕre «consegnare»] = […] 2. b. Trasmissione nel tempo, di generazione in generazione, di consuetudini, usi e costumi, modelli e norme; anche le consuetudini, gli usi e i costumi, ecc. così trasmessi e costituitisi.

– Vocabolario Treccani

Vista da una prospettiva più etimologica, questa parola assume una sfumatura diversa, perché riassume in sé stessa un principio dinamico, vale a dire un passaggio da un punto A a un punto B, dove A sono i nostri nonni e B siamo noi. Nessun movimento è mai certo, né perfettamente prevedibile, il coinvolgimento di due parti estranee tra loro ha sempre un margine piuttosto ampio d’errore. Anzi, il movimento è il principio stesso del cambiamento, allora come possiamo pretendere che una cosa come la tradizione, che ha origine dal movimento, sia sempre uguale a sé stessa?

Insomma, la tradizione è il modo moderno con cui definiamo un certo tipo di mito, di retroterra culturale a cui ciascuno di noi, in quanto essere umano, è più o meno soggetto. Come mito è quindi estremamente mutabile, ha mille volti, tutti veri, e se ci ostiniamo a volerne dare un’immagine monolitica, tradiamo la tradizione e lasciamo che qualcosa ci sfugga.

La mater romana

Parliamo ora di un altro termine molto abusato dall’italiano medio (maschio): «mamma». A consacrare questo ruolo familiare che ancora oggi ci sembra fondamentale e fondante sono stati niente meno che gli antichi Romani, che avevano una politica misogina e di repressione delle donne piuttosto ferrea.

Nella Roma antica, già quella arcaica, le donne vengono sostanzialmente associate al loro ruolo fondamentale: creare cittadini, cives, quindi madri. La mater familias è il ruolo femminile per eccellenza, ricoperto da una matrona che incarna tutta una serie di qualità imprescindibili: è fertile, eppure casta e univira (legata a un solo uomo per tutta la vita), è schiva e modesta, non ricerca il lusso, parla poco. È fondamentale che questa donna si occupi in prima persona dell’allattamento dei suoi bambini, perché il latte di donna nobile si trasmetta direttamente alla sua progenie, senza che venga intaccata da latte estraneo (che potrebbe mal influenzare i bambinə). Ma non è tutto, la matrona della Roma arcaica, della prima Repubblica, allatta anche tutti i bambini presenti nella domus, quindi anche i figlə delle serve e delle schiave, affinché si instilli in loro la cieca fedeltà al padrone.

Non sarà così per sempre, ovviamente, ben presto le matrone si rendono conto che allattare una quantità simile di bambini (avevano in media anche una decina di figlə) è a dir poco insostenibili, dunque inizia l’abitudine di affidare l’allattamento alle balie, figure centrali poi per la crescita del bambinə e a cui si rimane molto legati.

Filia de anima

Il discorso che voglio fare è come sempre abbastanza trasversale, quindi i singoli elementi non verranno troppo approfonditi ma si illumineranno l’uno con l’altro per un quadro più chiaro.

Facciamo un bel salto, nel 2009 viene pubblicato il romanzo di Michela Murgia, Accabadora (compralo qui), che propone una prospettiva molto interessante sulla maternità, ambientato in luogo come la Sardegna, fortemente impermeabile all’innovazione culturali e tradizionalista. Eppure è usanza comune in Sardegna (e a dire il vero anche in tutto il Sud Italia) di lasciare un figliə, quando se ne ha troppi a carico, a una zia, una donna che non ne abbia potuti avere. In questo caso, il bambinə, si chiama filius de anima, letteralmente figlio d’anima.

Fillus de anima.
È così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra. Di quel secondo parto era figlia Maria Listru, frutto tardivo dell’anima di Bonaria Urrai.

Insomma, Maria Listru, la protagonista, ce l’ha una madre di sangue, eppure non si sente del tutto sua figlia.

Maria invece era arrivata troppo tardi anche al ventre di sua madre, e sin da subito aveva fatto l’abitudine a essere l’ultimo pensiero di una famiglia che ne aveva già troppi.

C’è una differenza profonda e radicale tra il rapporto con la madre di sangue e Bonaria Urrai, che la accoglie e la cresce; ed è una differenza che non ha nulla a che vedere con l’aver partorito o meno la bambina.

Sua madre Anna Teresa Listru, donna affascinata dalle numerazioni in qualunque forma le si presentassero, non l’aveva abituata a nient’altro che a vedersi in sequenza con le sue sorelle, secondo una formula di rito sempre identica:
«E chi è questa bella bambina?»
«È l’ultima». Oppure, semplicemente: «È la quarta». Così forte era l’impronta da classifica di corsa campestre che nei primi tempi Maria si era dovuta mordere la lingua per non presentarsi a sua volta così, come l’ultima, o la quarta. Bonaria questo non poteva saperlo, eppure doveva averlo in qualche modo intuito, perché quando si trattava di presentarla a estranei la precedeva sempre.
«Lei è Maria».
E quell’essere semplicemente Maria doveva bastare anche a quanti avessero voluto capirne di più. La gente di Soreni ci aveva messo un po’, ma alla fine aveva afferrato l’antifona di quella misteriosa liturgia, e tutt’a un tratto era come se fosse stato sempre così, anima e fill’e anima, un modo meno colpevole di essere madre e figlia.

Questa storia ci insegna che tradizionalmente (no, non è un’invenzione degli ultimi anni) la maternità ha poco a che fare sia con l’allattamento, la gravidanza, la genetica. L’essere madre non si esaurisce col parto, non è un processo produttivo, ma di lenta cura. È dedicare sforzi e fatiche per un essere altro da te, un cuore e un respiro che si muovono a ritmi diversi dal tuo, ma coi quali tenti una vicinanza, coi quali ti metti in sintonia, che ascolti e proteggi, con paziente amore.

Due madri, nessuna madre

Siamo sempre in un contesto fortemente tradizionalista, questa volta il Molise, e a parlarcene attraverso la letteratura è Donatella di Pierantonio, che nel 2017 vince il Premio Campiello con L’arminuta (compralo qui). È un romanzo molto più emotivamente destabilizzante del primo che ho citato, perché mette in scena la scoperta di una mancata maternità.

La protagonista è una bambina chiamata da tutti in paese «l’arminuta», la ritornata, perché questo è il destino che le è toccato. Nasce in una famiglia disagiata, con poco denaro e molti figli, uno zio alla lontana, con la moglie, decidono di prenderla in casa e per molti anni la crescono come figlia propria. Classica famiglia piccolo borghese, che le insegna le buone maniere, la fa studiare, la iscrive ai corsi di nuoto, di danza; una mamma premurosa e attenta, che le sbuccia l’arancia per la merenda e le prepara il pesce nel weekend. Una vita normale finché qualcosa non si incrina, lei ha solo tredici anni e tutta la verità le viene sbattuta addosso, dicendole che deve tornare dalla vera madre.

Eppure, chi è la sua vera madre? Di certo, ancora una volta, non chi l’ha partorita, di cui ignorava l’esistenza fino a poco prima, non lei che l’ha messa al mondo. La vera madre, se così si può dire, è la donna che fino a quel momento le ha dato tutto quello di cui aveva bisogno, quella che per lei significava irrevocabilmente casa.

È molto toccante il passaggio del romanzo, quando la ragazza da poco è tornata dalla famiglia d’origine e si ritrova nella necessità di chiamare la madre, ma questa parola, è irrimediabilmente guastata per lei.

Quando ho allungato la mano verso la saponetta sul bordo, ho sentito che stavo per morire. Il sangue abbandonava la testa, le braccia, il petto e li lasciava gelidi. Ma restavano attimi per un paio di necessità: aprire lo scarico e chiedere aiuto. Non sapevo come attirare a me l’attenzione della donna di là, non riuscivo a chiamarla mamma. Al posto della sequenza di M e A ho vomitato grumi di latte acido nell’acqua che scendeva. Non ricordavo più nemmeno il suo nome, se anche avessi voluto invocarlo. Allora ho urlato e poi sono svenuta. […] Non l’ho mai chiamata, per anni. Da quando le sono stata restituita, la parola mamma si è annidata nella mia gola come un rospo che non è più saltato fuori. Se dovevo rivolgermi a lei con urgenza, cercavo di catturarne l’attenzione in modi diversi.

L’arminuta è nella paradossale situazione, tristemente possibile, di avere due madri, eppure di non averne neppure una, abbandonata da entrambe in momenti diversi, senza la connessione d’anima con nessuna.

Questo per dimostrare, che la tradizione che abbiamo in mente è spesso un fuoco fatuo della nostra immaginazione, una costruzione a posteriori per giustificare dei nostri pensieri. La realtà è sempre più complessa, perciò trattiamola come è lecito, essendo grati di quello che ci viene tramandato, ma con il senso critico e l’apertura mentale, di operare cambiamenti laddove ci sembra giusto.

*L’immagine in copertina è Madri, di Käthe Kollwitz, facsimile xilografia, al Metropolitan Museum.

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