
Natale
“…e poi è arrivato quello lì, sai”
“Chi?”
“Mmm non lo so, in realtà. Un signore”
Alice scrolla le spalle. In effetti non è che sappia bene chi fosse quel signore, ma poco importa.
“Un signore dici? Lo conosci?”
“No. No, non lo avevo mai visto. Aveva qualcosa di familiare però. Beh, forse era solo un volto noto, non ti pare?”
Il misterioso interlocutore annuisce assorto, o almeno così le sembra. In realtà non lo vede bene in faccia, però è sicura di poter dire che la misteriosa figura abbia annuito.
“Era bello” aggiunge, come ricordandosene in quell’istante. “Particolare. I capelli un po’ lunghini, l’aria triste. Ecco, sembrava triste. Molto triste. Ma non come se gli fosse successo qualcosa di
brutto, più come se fosse triste sempre, capisci? Come quando ricevi una brutta notizia, una di quelle notizie che sconvolgono l’intero ordine globale, e dopo che le sai no puoi più decidere di non
saperle, quindi ti porterai sempre dietro quella notizia, e quella tristezza. Ecco. Come se fosse triste sempre. E io queste cose le ho capite subito, sai, mia sorella mi diceva sempre che non capivo mai niente e in effetti aveva ragione, però quel tipo l’ho capito subito. Era bello, ed era triste, e mi sono detta diamine, lo capisco! Anche io sto così. Così mi sono fidata”
“Anche tu hai ricevuto una di quelle notizie brutte tanto da sconvolgere l’intero ordine globale?”
“Eh, sì. Sì, alcune. Anche io sono sempre un po’ triste. Comunque quel tizio viene verso di me, proprio verso di me, e ha questa faccia triste, di solito la gente quando mi vede o ride o mette su
un’espressione di tipo disgusto, sai, fanno…”
Alice solleva un angolo della bocca, aggrotta un po’ le sopracciglia. “Così”. Poi scoppia a ridere.
“Ti stavo dicendo, viene verso di me. Proprio verso di me. E sul subito penso ma dai? Cerca me? Ero anche lusingata, cioè, sembrava a posto, non me ne capitano tanti di tipi a posto. Poi mi guardo
intorno e penso che non c’è molta altra scelta, ci sono solo io, io e lui. Ed è strano, eh, di solito con me ci sta la Marisa che mi tiene compagnia, almeno lei, invece niente. Oddio, chissà dove era andata? Magari non vedendomi quando torna si preoccupa”
Solleva di nuovo le spalle. Stranamente non le riesce di preoccuparsi di come possa stare quella buonanima della Marisa.
“Comunque. Viene verso di me. Si piazza proprio, davanti a me. Guardando un pochino a terra. Un po’ triste.”
“Atmosfera da film horror”
“Macché. Era a posto, ti dico. Fosse stata qualsiasi altra persona ti avrei dato ragione. Ma non lui. Così non gli urlo vaffanculo o turno finito stronzo o venti euro per un pompino, no, gli dico ehi. E
poi gli faccio cenno se vuole sedersi vicino a me. Che per carità, è pieno di immondizia vicino a me, ma magari in due ci si scalda. Fa freddo stanotte”
Alice ci pensa su.
“Faceva freddo. Ora si sta bene. E pioveva pure, io almeno ero un po’ riparata. Lui invece stava sotto la pioggia, i capelli bagnati sembravano ancora più lunghi. Anche se… ma no, forse non pioveva. Non mi ricordo che fosse bagnato.”
“Forse pioveva prima.”
“Già, forse pioveva prima. Ora, comunque, non piove.”
“Siamo al chiuso. Per questo non piove”
“Siamo al… aaaah! È vero. Ora lo vedo”
In effetti la nebbia si è diradata. Alice riconosce vaghe le sagome delle pareti e del soffitto, ma non capisce dove possa essere. Una locanda, forse? Un rifugio?
“Da bambina andavo spesso in un rifugio dalle parti della Val Varaisa. Mi piaceva. Siamo lì?”
“Sì. Siamo lì.”
Ora riesce a vederlo chiaramente.
“Com’è che si chiamava quel posto?”
“Rifugio Stella Alpina”
L’interlocutore misterioso ha una voce estremamente dolce.
“Rifugio Stella Alpina… ora ricordo. Era bello, diamine. Da quando è poi morta la mamma non ci siamo più stati. Però mi piacerebbe ritornarci”
“Sei qui, ora”
“Già… come ci sono arrivata?”
“Non lo so. Mi stavi raccontando di un tipo”
“Giusto. Io gli faccio cenno di avvicinarsi, e lui niente. Sta fermo. Così penso che magari non ha capito o non si osa, così gli chiedo vuoi qualcosa? E lui scuote piano la testa, a quel punto solleva
un pochino lo sguardo e risponde: «Niente, grazie. Non voglio niente da te. Non sono venuto per prendere niente». E ha una voce profonda, pure gli occhi sono profondi, e la voce è molto dolce,
anche un pochino triste ma principalmente dolce, ed è così dolce da farmi sentire a casa, capisci? A casa, io saran dieci anni che non ce l’ho più una casa, eppure quello parla e io penso toh, sono a
casa. E mi sento al sicuro, mi sento abbracciata, mi sento capita e allora penso ma guarda che stronzo, venire qui e parlarmi così con questa voce e mentre ci penso sento che mi viene una gran voglia di piangere. Sento un dolore all’altezza del petto che sale, mi prende la gola tanto che non riesco più a parlare, e sale ancora, mi prende il mento, lo fa tremare, mi prende gli occhi e devo
veramente combattere contro il loro istinto di riempirsi di lacrime, ma quelli sono già pieni, e allora devo combattere contro l’istinto di lasciarle cadere. Le lacrime. E penso che normalmente le
persone non si fermano davanti a me così, guardando un poco per terra, e non mi parlano con voce dolce. Le persone da me non chiedono, prendono e basta, strappano via ciò che gli serve, mordono afferrano tirano. Poi quando hanno ciò che vogliono mi lasciano di nuovo così, in mezzo ad una strada, come… una cosa posata in un angolo e dimenticata”
“Stai piangendo?”
“No. È solo che era un poeta, che diceva quella roba lì. Una cosa posata in un angolo e dimenticata. Non mi ricordo chi fosse. Una volta mi piaceva tanto la poesia, ora non ricordo più quasi niente. A che mi serve, la poesia, ora?”
Alice tira su rumorosamente col naso. Le piacerebbe conoscere ancora la poesia. Sono anni che nessuno più la tratta come se fosse una persona a cui la poesia servirà, prima o poi.
“E l’altra cosa è che non dicono grazie, le persone. Non a me. Non sono gentili. E improvvisamente lo odio, questo signore. È come tutti gli altri, solo sono diverse le cose che di me gli interessano. Mi sta davanti, e non fa che guardare la mia fragilità come se potesse masturbarcisi sopra, e io mi sento nuda, nuda davvero, più di come sia mai stata davanti ad un uomo. Gli lancio uno sguardo di odio e mi accorgo che… no. Non mi sta guardando. Ha distolto lo sguardo. Con… pudore. Non sembra volersi cibare della mia debolezza. Ha fatto anche un passo indietro. Lo perdono, un poco.
Allora che cosa vuoi? Gli chiedo. Sono io che lo guardo intensamente, ora. Mi sento più sicura e lui forse lo capisce, perché torna a guardarmi, sempre discreto, da sotto quei suoi capelli lunghi. «Vieni con me» mi dice.
«Che, con te? Non posso. Dovrei prendere… le mie cose. Mi serve un attimo, almeno».
Non era vero, sai? Non è che io abbia molto. Giusto un paio di coperte luride e l’incasso della settimana. Che comunque non è un granché. Era una bugia, ma lui penso che ci abbia creduto. Di’: pensi che possa nascere una storia d’amore tra me e quel tipo misterioso? Magari era un principe azzurro”
La figura misteriosa sorride.
“Chi lo sa? Sono strani gli uomini”
“Naah, io li conosco bene. Non sono strani. In realtà sono tutti abbastanza semplici. Tutti uguali”
“Quelli non sono uomini”
“Forse hai ragione. E il bel tipo? Lui è un uomo?”
“Forse. Alla fine lo hai seguito?”
“Sì, alla fine sì. Ma non ho preso la coperta. Nemmeno gli incassi. Lui mi ha detto qualcosa lo puoi portare. Qualcos’altro puoi lasciarlo qui. Ho pensato che avrei potuto regalare tutto alla Marisa, ma ha fatto un piccolo cenno di diniego. Non sono cose da regalarsi ha detto. Mi sono guardata intorno. Non pioveva più. Però è evidente che aveva piovuto, perché tutto il viale sembrava pulito. Ed era pieno di gemme di diverso colore, disseminate ovunque intorno a me. Le coperte non c’erano più. Neanche l’incasso. Queste le prendo? Ho chiesto. Ero confusa. «Dipende» ha detto lui. E ha fatto un passo indietro. Ho preso in mano una manciata di gemme blu scuro. Sembravano zaffiri. «Quelle sono le umiliazioni» ha detto il tipo. Allora le ho lasciate lì.
Ce n’erano poi di rosso acceso. Quelle sono la vergogna ha detto. E anche loro le ho lasciate lì.
Ne ho viste alcune rosa pallido. Erano poche, ma belle. Quelle sono i ricordi ha detto. Allora me li sono messi in tasca.
Delle pietre verdi mi disse che erano i rimpianti. E li lasciai lì.
Anche le pietre gialle le lasciai lì. Erano la fame, il freddo, il bisogno.
Era poi pieno di pietre azzurre chiaro, quasi bianche. Sembravano lacrime ed erano sparse tutte intorno a me. «Che cosa sono?» ho chiesto. Il dolore ha risposto il tipo. Allora le ho prese. Tutte. Me le sono strette al petto e ho sentito di nuovo quella sensazione simile al pianto che saliva dal petto fino alla gola, ma non faceva male, perché non c’erano più l’umiliazione né la vergogna. Me le sono strette addosso ancora più forte e ho sentito che fosse giusto, che non potevo lasciarle lì.
Devo portarle con me ho detto ad alta voce, quasi a volermi giustificare. Sono parte di me. Ma lui non ha detto niente. Ha solo annuito. «Andiamo?» Ha detto dopo un po’. Mi ha porto la mano”.
“Lo hai seguito?”
“Beh, sì. Non che avessi molto altro da fare”
“E dove ti ha portato?”
“Suppongo… qui. Al Rifugio Stella Alpina. A proposito, dove sono tutti?”
“A dormire. È tardi, e domani dovranno svegliarsi presto per iniziare a camminare”
“Oh! Forse dovremmo andare a dormire anche noi”
“Sei stanca?”
“No”
“Nemmeno io”
“Restiamo qui, allora”
“Camminando vedevo molte altre gemme. Alcune le prendevo con me, altre le lasciavo lì. Il mio compagno mi spiegava mano a mano che cosa fossero. Ah, sì! Ad un certo punto ho visto una gemma arancione, e lui mi ha detto che era la poesia. Allora l’ho presa! Mi sono ricordata che mi piace, la poesia. Mi piaceva quando ero piccola. Per questo prima mi sono ricordata di quel poeta! Com’è che si chiamava?”
“Ungaretti”
“Ungaretti, esatto! Me lo ricordo. Lo avevo studiato alle scuole medie. Comunque a quel punto mi ricordo che ho pensato che forse anche lui era un poeta. Gliel’ho chiesto. «Una specie» ha detto.
Wow! Hai scritto dei libri? Gli ho chiesto. Sai, è da tanto che non leggo un libro. Ma prima credo mi piacesse. «Non proprio» ha detto. E ha sorriso. È stata la prima volta. Intanto non mi lasciava mai la mano, e menomale, perché era tutto buio e sicuro mi sarei persa. Come si chiamava quella poesia?”
“Quale? Quella che hai citato prima?”
“Sì”
“Natale”
“Natale… mi piace il Natale”
“Sei fortunata. È quasi arrivato”
“Davvero?!”
“Sì! Siamo a fine dicembre. Tra pochi giorni sarà Natale”
“Ma pensa. Incredibile come si perda il senso dei giorni, eh?”
Alice abbassa lo sguardo.
“Sembri triste” le dice il suo misterioso interlocutore con voce gentile.
“Ma no, è solo che è da un po’ che non festeggio il Natale. Quando ero piccola facevamo una festa grande, io, la mamma, mia sorella, il papà, facevamo l’albero e il presepe, e poi cucinavamo tanto.
Papà metteva le lucine per tutta la casa, venivano i nonni e gli zii… mi piaceva. Era bello. Solo che poi la mamma è morta e non lo abbiamo più voluto festeggiare. Cioè, io in realtà volevo, solo che
papà era sempre triste, e non gli andava più di mettere le lucine ovunque. E poi era sempre stanco. Abbiamo anche dovuto cambiare casa. Poi litigava con tutti, coi nonni e con gli zii, ed era sempre
triste, non riusciva più a lavorare, e forse mettere le lucine non era la cosa migliore da fare… però mi sarebbe piaciuto. Il Natale mi piace ancora adesso. Dopo che me ne sono andata via di casa o un po’ perso il conto dei giorni, però c’è sempre un periodo dell’anno in cui la città si riempie di lucine e un pochino mi sento a casa. La Marisa e io ci facciamo gli auguri. È bello, dura poco però. Sai, gli uomini ci cercano anche a Natale”
“Se vuoi lo possiamo festeggiare qui”
“In realtà mi piacerebbe andare a casa”
“Possiamo andare a casa allora”
Alice non risponde. Sì, in effetti sarebbe bello.
“Fa tanto freddo fuori?” chiede.
“Sì. Fa tanto freddo.”
“Dovrò richiamare Dingo allora”
“Chi?”
“Ah, giusto! Non te l’ho detto!” Alice si batte la fronte con una mano.
“Ad un certo punto mentre seguivo il bel tipo ho sentito abbaiare. Era Dingo! Quasi impazzivo dalla gioia quando l’ho visto. Ero convinta che fosse morto! Saranno stati dieci, quindici anni che non lo vedevo più”
“Ma chi è Dingo?”
“Era il mio cane. L’avevo chiamato io così. Avevo letto da qualche parte che il dingo è una specie di cane selvatico, e il mio Dingo era un po’ selvatico eh. Era bello eh, ma bello davvero, e poi era
simpatico. Un gran bel cane. Anche alla mamma piaceva tanto. Lo portavamo a spasso insieme. Poi, beh, la mamma è morta. Dingo è scappato qualche tempo dopo. Così mi ha detto il papà. Ma è
tornato! E mi ha riconosciuto subito, incredibile vero? E dire che sono cambiata un sacco”
“I cani non riconoscono le persone dall’aspetto, ma dall’odore. Forse quello è rimasto uguale”
“Già, forse è così. Dingo! Ho urlato non appena l’ho visto. Lui abbaiava e saltellava e io anche, saltellavo! Possiamo portarlo con noi? Ho chiesto al tipo. Lui ha riso e ha detto sì. Gli ha anche fatto qualche coccola, lui si è lasciato accarezzare, ed è strano eh? Di solito non si faceva toccare dagli estranei. Comunque, lo dovrei richiamare dentro, se fuori fa così freddo”
Alice fa per allontanarsi ma una mano sulla spalla la ferma. Gentilmente.
“Non andare fuori. Fa molto freddo.”
È la mano del misterioso interlocutore. Ha i polsi sottili.
“Ma devo chiamare Dingo”
“Dingo sta bene”
“E l’uomo? Quello che mi ha portato qui?”
“Ti ha portato qui, dici?”
“Io… credo di sì”
In realtà Alice non riesce a ricordare come c’è arrivata, al Rifugio Stella Alpina. Non ricorda di aver salutato l’uomo. Né di aver legato Dingo. Non sa con chi sta parlando. Fa caldo. Si sente odore di legno di pino e di fuoco nel camino.
“Di’, che ci faccio qui? Dovrei tornare indietro, forse”
“Vorresti?”
Alice alza le spalle. Ovviamente no. Qui si sta bene, e fuori fa tanto freddo. Però non capisce. E poi la Marisa si preoccuperà molto, non vedendola tornare.
“La Marisa starà bene. Non piangerà nemmeno”
Alice vorrebbe chiedere perché diamine la Marisa dovrebbe voler piangere, invece si ritrova a dire: “No, ovvio. Quelle come noi non piangono mai”
È un mestiere arido, il suo, che inaridisce l’anima e il cuore, asciugando ogni tipo di lacrima che potrebbe mai cadere dagli occhi. Per molti anni si è sentita come se nel suo cervello ci fosse il deserto, enormi distese di sabbia la sua anima. Quando è arrivato il signore stava piovendo. Forse è nata qualche piantina. I fiori nel deserto devono essere belli.
“Ti piacerebbe vedere il deserto?” chiede gentile il suo misterioso interlocutore.
“No. Mi piacerebbe vedere l’oceano”
“Potremmo andarci insieme.”
Alice sente di nuovo quella sgradevole sensazione dolorosa che parte dal cuore e arriva fino agli occhi, e di nuovo è arrabbiata. Ma si può sapere cosa vogliono tutti da lei? Dieci anni a non essere
considerata da nessuno, e ora ecco che tutti arrivano a interessarsi, a chiederle, a parlarle con quella stupida dolcezza nella voce. Come se avessero la pretesa assurda di volerla salvare.
“Ma si può sapere chi cazzo sei?”
È arrabbiata. Che se ne andassero tutti. Che la lasciassero sola, sola col suo dolore e i suoi ricordi. E la poesia. Ha imparato di nuovo a piangere, e sembra che questa sua nuova capacità non veda l’ora di manifestarsi in ogni momento.
E Alice vorrebbe piangere. Vorrebbe farsi sommergere da quella nuova dolcezza che sembra improvvisamente le sia dovuta, dopo anni in cui credeva che le fosse preclusa. Vorrebbe davvero. Invece si volta dall’altra parte e con voce rabbiosa continua a gridare: “Ma si può sapere chi cazzo sei?”
“Non mi riconosci? Sono la mamma”
E ora sì, in effetti Alice la riconosce. Riconosce distintamente i suoi tratti, il viso, le braccia. È bella. Sembra proprio la mamma, come se la ricordava, prima che si ammalasse.
“Ma no, non è vero. La mamma è morta”
“Anche tu sei morta”
Forse è il momento, o forse la voce incredibilmente delicata con cui questa frase viene pronunciata, ma Alice non sente tristezza. Solo un po’ di perplessità.
“Morta, dici? E come?”
“Faceva molto freddo. Davvero molto freddo. E tu non stavi tanto bene, te lo ricordi?”
“No”
“La Marisa ti ha prestato due delle sue coperte. Tu continuavi a tremare e a dire cose senza senso, allora lei si è spaventata. Ad un certo punto si è alzata ed è andata a cercare aiuto, sai, di solito nel
periodo di Natale qualche persona c’è sempre in giro. Ma non ha trovato nessuno. E continuava a fare tanto freddo. Si è anche messo a piovere, ad un certo punto. La Marisa cercava, e tu tremavi, e
ad un certo punto hai smesso di tremare.”
“Tornerà da me? La Marisa, intendo”
“Sì, tornerà. Ma non piangerà, non ti devi preoccupare”
“E Dingo? È morto anche lui?”
“Sì. Tanto tempo fa.”
“E l’uomo? Lui chi è?”
“Una specie di poeta, diciamo”
Alice non dice niente. Pensa.
“Ehi, mamma, di un po’”
Sua madre la guarda, con una dolcezza infinita negli occhi.
“Perché non sono triste?”
“Hai lasciato i rimpianti indietro. Ora non ne hai più”
“Mai? Mai più?”
“Mai più”
“E non verrò più umiliata? Non dovrò vergognarmi più?”
“Mai più”
“E la fame? Il freddo?”
“Non dovrai più patire tutte queste cose”
Alice sorride.
“Bene. È bello”
Sua mamma sorride.
“Sì. È bello”
“C’è un camino?”
“Eccolo” dice sua mamma, e glielo indica. Che buffo, prima non lo aveva notato. Ma è decisamente un camino, imponente, col fuoco che scoppietta.
“Vorrei sedermici davanti. Vieni con me?”
E si siedono, fianco a fianco, a guardare il fuoco.
“Niente più rimpianti, né umiliazioni, né vergogna. Sono stata brava a lasciarli indietro, eh?”
“Sei stata brava. Sei stata bravissima”
Alice si appoggia meglio al fianco caldo di sua madre, continuando a guardare il fuoco.
“Quell’altra poesia. Com’è che faceva?”


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