
Distopia del patriottismo
Chiedere perdono richiede più coraggio che sparare, che azionare una bomba. Quelle sono cose che possono fare tutti. Basta essere giovane, ingenuo e avere il sangue caldo.
– Fernando Aramburu, Patria
Questa è la frase pronunciata da uno dei personaggi di Patria di Fernando Aramburu (Premio Strega Europeo, 2018, compralo qui), negli ultimi capitoli del romanzo. A pensarla tra sé e sé, chiuso in una cella carceraria, è Joxe Mari, condannato a 126 anni di reclusione, quarantatré anni d’uomo, «diciassette dei quali in prigione». Joxe Mari è in prigione per reati di terrorismo, per essere entrato giovanissimo nel commando “Oria” dell’ETA. Vale a dire Euskadi Ta Askatasuna, l’organizzazione armata terroristica che dal 1961 al 2010 ha combattuto ciecamente per l’indipendenza del popolo basco, in pieno periodo post-franchista.
È un romanzo, quindi un racconto inventato, con personaggi mai esistiti, ma è ambientato in un periodo storico ben preciso, all’interno di dinamiche reali e contingenti, di grande attualità. Aramburu ha vissuto in prima persona, da basco, gli anni del terrorismo e sa darne una lettura narrativa, entusiasmante e che non cade nel sentimentalismo patetico.
Patria racconta di due famiglie legate da profonda amicizia, divise poi da questioni ideologiche: il Txato, padre di una delle due famiglie, muore in un attentato dell’ETA, per non aver versato dei fondi a favore della causa; Joxe Mari, figlio dell’altro nucleo, finirà in carcere per tutta la vita proprio per aver militato in un’organizzazione causa di tante morti.
È un libro lungo, che offre molti spunti, alternando i punti di vista di sette diversi personaggi e che tocca molte tematiche. Oggi vorrei parlare soprattutto del carcere, visto dalla prospettiva di un carcerato politico, di un uomo che rinuncia alla sua vita per un’ideologia; per poi confrontarla con un altro punto di vista, quello di Isabelle Allende in La casa degli spiriti.
La crepa invisibile
L’ETA deve agire senza fermarsi mai. Non ha altra scelta. È da tempo che è caduta nell’automatismo dell’attività cieca. Se non fa danni, non è, non esiste, non svolge nessuna funzione. Questo modo di funzionare mafioso è al di sopra della volontà dei suoi componenti. Nemmeno i suoi capi si possono sottrarre. Sì, va bene, prendono decisioni, ma è solo apparenza. Non possono comunque evitare di prenderle perché la macchina del terrore, una volta che ha preso velocità, non si può fermare.
Queste parole sono pronunciate dal Txato, quando ancora era vivo, minacciato continuamente dall’ETA, vivendo nel suo paese di origine una sorta di ostracismo sociale: nessuno gli rivolge la parola, sui muri capeggiano scritte diffamatorie sul suo conto, nell’aria persiste la continua paura di un attentato. Questo imprenditore, caduto nel vortice del terrore, vittima per eccellenza, capisce una cosa fondamentale: ogni ideologia, quando prende abbastanza piede, è assolutamente inarrestabile e fuori controllo, nemmeno chi l’aveva ideata può regolarla. Non è questione di cause giuste o sbagliate, ma di narrazione: ogni narrazione univoca, fatta di slogan, manifesti, mantra ripetuti fino alla nausea, è asfittica, viziata come l’aria di una cella.
Nella Fattoria degli animali di Orwell (comprala qui) si capisce perfettamente questo meccanismo, il tutto inizia con un’idea fondamentalmente giusta, un’idea di liberazione. Di quest’idea si fa promotrice una parte del gruppo oppresso (i maiali, i dirigenti dell’ETA), che per comodità organizzativa, inizia a disporre per gli altri. Così, lentamente, senza che nessuno se ne accorga, le scritte sul fienile che disponevano i dettami di una nuova convivenza, di una nuova libertà, mutano nella notte, piccole correzioni di cui nessuno si accorge. La legge di libertà muta in prescrizione di dittatura, regole emancipatorie si trasformano in dettami vincolanti. Joxe Mari e i tanti giovanissimi risucchiati nel vortice della lotta sono come la cavalla e la pecora: non hanno l’istruzione e la forma mentis necessaria per cogliere l’enormità del cambiamento, passano sotto silenzio le piccole incrinature, finché non diventano parti e vittime al tempo stesso del sistema. Un sistema, ormai, inarrestabile.
Storia di un militante e di come infine mollò
Joxe Mari non molla mai, non si tira mai indietro, entra nella lotta armata da appena adolescente, perché nel paese in cui nasce è molto più facile farsi trascinare, che tirarsene fuori. Ci vuole molto più coraggio, in certi ambienti, a non partecipare, piuttosto che farsi trascinare. Sente una sola narrazione, lo stesso romanzo per tutta la vita: l’oppressione del popolo basco, la polizia dittatoriale e intimidatoria, l’importanza di agire.
A questo si unisce la giovinezza, «il sangue caldo», l’adrenalina che può dare durante l’adolescenza fare qualsiasi cosa contro l’autorità. Il ribellismo naturale viene avallato e strumentalizzato da una causa, che si propone come giusta, più grande.
Joxe Mari non molla mai, nemmeno quando deve fuggire in Francia perché sa di essere ricercato, nemmeno quando deve vivere alla macchia per diversi anni, per evitare l’arresto, vegetando nei suoi vent’anni in stanze muffite di contadini. Non molla quando gli chiedono di tornare al suo paese sotto copertura, senza salutare sua madre né nessuno dei suoi amici, investigando su il migliore amico di suo padre. Non molla quando uccide il primo uomo, quando deve temere la propria ombra, quando viene arrestato e picchiato a sangue dai poliziotti. Non si tira indietro di fronte a interrogatori, scioperi della fame e vita da prigioniero politico, nemmeno per le lacrime di suo padre, il dolore mascherato della madre.
Un uomo può essere una nave con lo scafo d’acciaio. Poi passano gli anni e si formano delle incrinature. Di lì passa l’acqua della nostalgia, contaminata di solitudine, e l’acqua della consapevolezza di essersi sbagliato e di non poter rimediare all’errore, e quell’acqua che corrode tanto, quella del pentimento che si sente e non si dice per paura, per vergogna, per non fare brutta figura con i compagni. E così l’uomo, ormai nave incrinata, andrà a picco da un momento all’altro.
Poi arrivo «Aintzane, la ragazza di Ondárroa». Nei bar abertzale era usanza esporre i manifesti con le foto dei militanti dell’ETA finiti in carcere per la causa, con sotto scritti il nome e il luogo di detenzione. Così Aintzane consce Joxe Mari e decide di scrivergli delle lettere, si scrivono a lungo, finché non si organizza un incontro.
Era, non grassa, ma grande e robusta, bella, dalla risata facile, simpatia naturale e molto intraprendente. Era stata una sua idea organizzare un incontro intimo non appena Joxe Mari, superando la propria stordita e corpulenta timidezza, le confessò in parlatorio che lui in realtà non, che fino a quel momento mai, anche se aveva avuto una fidanzata al suo paese, però era una tipa rigida.
«Non si lasciava baciare per strada.»
E per un istante la sala parlatorio si riempì della risata fragorosa di Aintzane. Joxe Mari si lasciò guidare. Ricevette tenerezza, carezze, parole amorose sussurrate all’orecchio, e gli piacque. Era questo il problema. La notte, incapace di conciliare il sonno, capì di colpo, e fu come se gli fosse crollato addosso il soffitto della cella, che si stava perdendo il meglio della vita. Non che non ci avesse pensato prima. Ma adesso aveva avuto per la prima volta la sensazione fisica di avere gettato a mare la sua giovinezza.
Nulla farà desistere Joxe Mari, nulla tranne una robusta ragazza, in un pomeriggio qualsiasi, dei suoi quarant’anni. Soltanto una delle cose più semplici della vita, solo qualche carezza, un po’ di piacere e la crepa nel sistema è improvvisamente luminosa come un’insegna al neon. Qualche bacio e tutta una vita basata sulla lotta crolla sotto una certezza incredibile: non ne valeva la pena.
*L’immagine in copertina è L’isola dei morti (terza versione) di Arnold Böcklin, olio su tavola, 1883.


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