
Autopilota
Vivo solo quando scrivo. Sono io solo quando scrivo. Sono io solo quando qualcuno mi descrive.
Ognuno, mi hanno detto, scrive per tirare fuori ciò che ha dentro. Ma io non ho niente dentro.
Ognuno scrive per dire qualcosa. Ma come si fa a comunicare il nulla?
Anche quando penso di avere il controllo in realtà non è così. E allora chi mi controlla?
Nessuno, una macchina perfetta come il cervello non ha bisogno di un conducente per andare avanti. Ma non è nemmeno in autopilota. È un optional che non si può permettere, il bastardo rugoso. Altrimenti sarebbe troppo facile. Altrimenti non sentiremmo dolore. Ma altrimenti non saremmo umani. Lo dicono sempre, “no, il libero arbitrio è fondamentale per differenziare l’uomo dalla scimmia”. Cazzate dico io. Ciò che ci rende umani è l’impressione di possedere il libero arbitrio. Basta un’impressione, una sensazione per farci credere di essere liberi. In realtà non lo siamo. Ma va bene così, perché comunque sia non si possono conoscere i nostri padroni, chi ci lega alle catene della realtà. Ma io voglio davvero essere libero. Voglio agire in modo totalmente autonomo, in modo umano al 100%. Voglio entrare in autopilota.
Ora mi chiederete, ma come saresti più libero facendo ciò? Non saresti semplicemente ancora più uno schiavo? No. Sarei libero dall’impressione di essere libero. Saprei di essere uno schiavo. Saprei cosa posso fare, cosa il mio cervello può fare quando solo un input lo guida. Qualcosa di semplice. Per evitare di sprecare tempo e riempire la mia testa di merda.
Tutto è cominciato il mese scorso, mentre stavo in fila alla posta. Ho chiuso gli occhi, e quando li ho riaperti, ero davanti al cubicolo del postino. Nulla di diverso dal solito. Nessuna anomalia. Ho fatto quel che dovevo fare di persona, era meglio non spingere così in là questo nuovo potere. Il mio corpo era riuscito a pilotarsi da solo e avanzare nella fila senza che me ne accorgessi, per poi ridarmi il controllo alla fine di essa. Era fantastico. Del mezzo non ricordavo nulla, come quando ci si addormenta. Una sorta di timeskip.
Ho cominciato a farlo in situazioni noiose. In sala d’aspetto, in ascensore, alla fermata del bus, ma poi mi sono detto che sfruttare questa abilità in un modo così banale era uno spreco. Così ho fatto un esperimento. Mi sono avviato verso il municipio da casa mia, una passeggiata di mezzo chilometro circa. E ho chiuso gli occhi. Quando li ho riaperti, ero dove ero rimasto, ma il sole era calato. Dovevano essere passate circa due ore. Era una giornata calda, sentivo il sudore sulla mia fronte e sotto i miei vestiti. Questo confermava che mi ero effettivamente mosso e avevo fatto una passeggiata totalmente in autopilota. Una passeggiata non ha un punto di arrivo, finisce quando si ritorna a casa. Fin qui tutto regolare. Sentivo il colletto della maglietta leggermente bagnato, ma non era sudore. Alzo la mano sinistra e mi tocco la barba. Anche quella era bagnata. Acqua? Possibile che il mio corpo avesse bevuto da una fontanella senza che io gli dessi ulteriori input? Probabilmente era solo l’istinto di sopravvivenza che sovrastava questa sorta di trance, niente di cui preoccuparsi. La funzione autopilota, se dava controllo totale al mio corpo, era tenuta anche a soddisfare i suoi bisogni primari no? Questo avrebbe anche spiegato la busta della spesa che tenevo nella mano destra. Ma il cibo contenuto non era stato affatto consumato, e che dentro di esso c’era anche un pacchetto di sigarette. Io non fumo. Non mi feci altre domande e iniziai a salire a casa. Sulle rampe di scale mi resi conto che, probabilmente, questa modalità autopilota riusciva a soddisfare anche bisogni a lungo termine, e che teneva conto anche dei miei ricordi. Il mio frigo era vuoto, perciò avevo il bisogno inconsapevole di riempirlo in qualche modo. Ma come l’avevo comprato, con che criterio? Dopo aver messo le vivande in frigo presi la mia carta di credito dal portafogli. Nella tasca più ampia c’era anche uno scontrino. Una spesa di 20 euro circa, con la data odierna e di circa mezz’ora prima. Dovevo essere passato al ritorno.
Un momento. Ho pagato con la carta. Come ho fatto a ricordarmi il codice? E che c’è scritto sullo scontrino? Un numero? Avevo parlato con un commesso e aveva segnato qualcosa? Presi il telefono e composi il numero.
“Pronto?”
“Che tempismo! Ho appena finito il turno, ho fatto così colpo?” Una voce femminile mi accolse in questo modo.
“Ehm, io, credo… Sono… Ho trovato questo numero sullo scontrino, prima sono passato al minimarket”
“Lo so, e devo dire che ho sempre avuto un debole per chi è diretto in queste cose. Ti va di fumarci una sigaretta insieme? Sono il mio marchio preferito d’altronde, te l’ho detto”
“Temo di… Io non… fumo”
“Ah, un novellino? Non sembrava sai? Soprattutto con quella voce rauca. Comunque, l’invito è sempre valido, ho una bella terrazza sai?”
Voce rauca? “Sì sì, certo, ehm, ti… ti richiamerò senz’altro per… organizzare. Buona serata”
“Buona serata”
Attacco la telefonata. Ma che cosa avevo detto alla commessa per ottenere una reazione così… Positiva? E poi come sarebbe che avevo una voce rauca? Avevo parlato con una voce che non era la mia e avevo flirtato con una commessa del minimarket? Io? Ma io sono fidanzato! Perché mai avrei dovuto provarci con lei? Questo autopilota sembrava più complesso di quel che sembrava. C’era una sorta di intelligenza artificiale nella mia testa che sapeva cosa fare in ogni situazione per ottenere un certo tipo di risultato. Francamente, la commessa l’avevo vista molto spesso, e l’ho sempre trovata una ragazza carina, certo, ci feci anche qualche pensiero a livello di film mentale, ma niente oltre quello. E ora aveva occhi solo per me. Non capisco. Il miglior risultato possibile? Effetto farfalla? Una piccola serie di azioni che conducono a un grande passo avanti? Questo spiegava le sigarette, erano l’oggetto della conversazione tra me e la commessa. Ma quando mai ho avuto delle
capacità simili? Possibile che questa cosa… impari? Devo smettere di usarla finché non sarò sicuro che…
Mi risveglio nel letto, nudo. La commessa è accanto a me, nuda anche lei. Cazzo. Cazzo cazzo cazzo cazzo.
“Buongiorno” mi fa lei con voce suadente
“Taci! Ti prego silenzio.”
Questa reazione brusca non sembra colpirla più di tanto. Deve essere successo qualcosa in autopilota. Non ricordo di averlo attivato.
“D’accordo, ma solo se mi fai stare zitta tu”
“Ehm, ehm, ok va bene, penso che… tu non stia capendo bene quello che sta succedendo”
“Penso di si invece, e mi piace parecchio”
“No, no, no, no non ti piace affatto” Respiro profondamente. Devo trovare un modo per trovare una spiegazione che non sembri folle. Ma il lungo silenzio che precede la spiegazione la mette a disagio.
“Stai bene? Vuoi dell’acqua? Dopo quello che hai bevuto ieri sera forse ti può servire…”
Bene. Indizi. Dettagli. Cose che sono successe. Appigli per la mia salvezza.
“Si dunque, vedi ehm, ieri ho bevuto troppo, non sapevo cosa stavo facendo, non ero lucido e così è successo… Questo. Perdonami, davvero tu sei molto carina ma non volevo…”
“Non volevi? Sicuro? Mi sembravi molto sobrio quando mi hai invitato qui”
Altre briciole. Notizia buona: sono ancora a casa mia. Bene. Notizia cattiva: non posso dare completamente la colpa all’alcol.
“Si, lo so… Ma… Mi sentivo… Male, ieri. Avevo bisogno di compagnia e così… non ho ragionato… bene.”
“Non hai ragionato bene?”
Mi guarda con aria inquisitoria. Se mi conoscesse meglio sarei fottuto. Scuoto la testa per affermare la mia pessima capacità di giudizio.
“Beh mi dispiace scoprire di essere stata solo una consolazione, dopo tutto quello che mi hai detto ieri notte” dice mentre si alza e raccatta i suoi vestiti sparsi per terra.
“Che cosa ho detto ieri notte?”
Si volta e comincia a infilarsi i pantaloni. E poi comincia con aria sognante:
“Che cosa non mi hai detto! è stato come se mi conoscessi da sempre, sapessi tutto ciò che mi fa stare bene, e non solo in quel senso. Mi hai consolata, mi hai offerto il tuo appoggio, mi hai chiesto di essere sincera e seria con me. Ero in lacrime quando abbiamo finito la prima volta. E poi mi hai baciata”
“La prima volta?” dico, toccandomi le labbra e scoprendo che sono sporche di rossetto.
“Dopo quello che mi hai detto, pensavi che ti avrei lasciato andare così facilmente?”
Lo dice in modo scherzoso, ma nella sua voce c’è un filo di tristezza, come di chi ha appena avuto un sogno infranto.
“Io non so quello che ti ho detto! Non te l’ho detto io!”
“E allora chi eh? Chi mi ha parlato!”
“Io non… C’è qualcosa di… strano che ho detto? Qualcosa di fuori luogo?”
“DI fuori luogo?”
“SI tipo… un tic? Come chi ha la sindrome di Tourette”
“Hai la sindrome di Tourette?”
“No, no ma… Parlo spesso nel sonno”
“Eri addormentato? Non ci credo, ma perché mi lascio trascinare da tizi come questi…”
La ramanzina mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro. Io parlo nel sonno. L’ho sempre fatto. E posso mettermi in uno stato di trance autopilotato. Come se stessi dormendo. Ecco come faccio a parlare. Ma cosa dico quando parlo nel sonno?
“Mamma, mamma, aiutami, aaaaaa” dico a voce flebile, come a imitare quelle voci dormienti che escono da me.
“Come?”
Ripeto i versi guardandola negli occhi. Riguardandola adesso, mi accorgo che non è il mio tipo. Mai stato gran fan delle bionde.
“Si, Si hai detto così a un certo punto”
Pezzi del mio subconscio… conscio che emergono dal mio subconscio in trance. Ma le altre parole?
Non ho tempo per pensarci. Il citofono suona.
“Perdonami ma forse è il momento di lasciarci è stato davvero bellissimo ne sono sicuro ma avremo altri momenti per parlare di questo enigma”
“Va bene…”
Accompagno la ragazza alla porta e la saluto. Ho pochi minuti, forse secondi, prima che lei arrivi. Mentre sento i passi della commessa che scendono le scale, sento i passi della mia
fidanzata che salgono sul pianerottolo. Oltre al problema esistenziale ci mancava la novella medievale! La sento che bussa alla porta.
“Tesoro, sono io, svegliati.”
Aprirle implica problemi. Dovrei spiegare la situazione. Non mi crederà. Mi lascerà. Non voglio, io la amo. Ma l’ho tradita, non volevo ma l’ho fatto, non posso, non posso aprire.
Rannicchiato accanto alla porta che rimbomba nelle mie orecchie come un tamburo, chiudo gli occhi in preda alla disperazione e…
Riapro gli occhi. Sono fuori in strada. Sto fumando una sigaretta. Deve essere passato poco tempo. L’autopilota avrà risolto tutto e io sarò andato a prendere qualcosa per lei. Dovrò di
nuovo passare dal market, sai che casino. Ogni fibra del mio corpo sta tremando, e mi sento il viso bagnato. Sono stanco. Le mie braccia pesano come macigni. Che cosa è successo?
Abbasso lo sguardo. Una pozza di sangue sotto di me. Due donne, una bionda e una bruna, ai miei piedi, inzuppate in un bagno di sangue. Tengo la bionda per mano. Sto tenendo solo
la sua mano. Il resto del braccio è per terra, insieme alla commessa. Nell’altra ho un coltello da cucina, sporco di sangue. La bionda è ancora viva, sta piangendo. Ma non riesce a scappare. La bruna è stata pugnalata diverse volte sulla schiena. Mi volto e noto una scia rossa che porta fino a sotto casa. L’ho trascinata qui dal pianerottolo.
Questo è il risultato migliore? La strada più breve per la mia destinazione? Ah, ma io non ho mai impostato la destinazione qui, giusto? Io posso solo lasciarmi andare alla corrente, e liberarmi dalla finta libertà che mi incatena. Mentre sento le sirene della polizia che si avvicinano, lascio cadere il coltello per terra, mi inginocchio, alzo le mani e chiudo gli occhi.
E attivo l’autopilota. Destinazione: libertà.


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