
Ovidio e l’elegia “al femminile”
“O mutevole figlio di Esone, più incerto della brezza di primavera,
perché le tue parole non hanno il peso di una promessa?
Eri partito di qui che eri il mio sposo, ma sei tornato di là non più mio.”– Ovidio, Heroides, 6, 109-111.
Vita
A fornirci molte notizie autobiografiche è lo stesso Ovidio, in particolare nell’elegia 4, 10 dei Tristia (compralo qui): Publio Ovidio Nasone (questo è il suo nome completo) nasce a Sulmona, in Abruzzo, il 20 marzo del 43 a.C. Grazie all’agiatezza della sua famiglia, di rango equestre, riceve un’ottima educazione letteraria e frequenta a Roma le migliori scuole di retorica (quelle di Arellio Fusco e Porcio Latrone), in vista della carriera forense e politica. Completa gli studi compiendo il rituale viaggio in Grecia (ad Atene), visitando anche l’Egitto, l’Asia Minore e la Sicilia per circa un anno.
Ma, al ritorno a Roma, dopo aver ricoperto solo alcune cariche minori, prima di diventare questore, preferì la poesia alla vita forense e politica: entra nel circolo letterario di Messalla Corvino, dove stringe rapporti con i maggiori poeti di Roma, in particolare con Tibullo. Divenne presto famoso con la sua tragedia Medea e la prima produzione elegiaca.
Si sposa e divorzia due volte, trovando la serenità coniugale solo con la terza moglie, Fabia.
Improvvisamente, nell’8 d.C., all’apice del successo e impegnato nella composizione dei Fasti (compralo qui) e delle Metamorfosi (compralo qui), Ovidio è colto da un improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che lo relega sul mar Nero, a Tomi (oggi Costanza, in Romania) senza familiari né amici. Le cause della relegazione (che, a differenza dell’esilio, non comportava perdita dei beni e della cittadinanza) non ci sono ben chiare (Ovidio vi accenna velatamente in Tristia, 2, 207): sembra che fosse implicato in uno scandalo di corte, in cui era coinvolta Vipsania Giulia Agrippina, nipote di Augusto, accusata di adulterio con Decimo Giulio Silano. L’accusa ufficiale che gli viene imputata, però, fu l’aver composto l’Ars Amatoria, opera che avrebbe incitato le donne all’adulterio (Ovidio ne fa cenno in Tristia II, 207-208). Durante la condanna continua la sua attività poetica, lamentandosi di dover trascorrere i suoi ultimi anni di vita in mezzo ai Geti, che lui considera gente rozza e inospitale.
Ovidio tenta di far revocare la relegazione sia sotto Augusto sia sotto Tiberio, ma invano: Ovidio muore solo a Tomi nel 17 o 18 d.C.

Le Heroides e le altre opere
Ovidio fu un autore molto prolifico, il cui corpus può essere diviso in tre sezioni: la prima, tra il 23 a.C. e il 2 d.C., contenente opere elegiache di argomento amoroso (Amores, Heroides, Ars Amatoria ed elegie); la seconda fase, quella della maturità, compresa tra il 2 e l’8 d.C. (Metamorfosi e Fasti); e infine il periodo dell’esilio a Tomi, dall’8 al 17/18 d.C., che include elegie di invettiva e rimpianto (Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis).
Le Heroides, come abbiamo visto, appartengono alla prima fase compositiva di Ovidio: si tratta di una raccolta di lettere in distici elegiaci, che si immaginano scritte da alcune eroine del mito ai loro amati o mariti lontani o che le hanno abbandonate. Le prime quindici lettere sono state scritte tra il 20 e il 16 a.C., mentre le ultime sei sono state aggiunte successivamente (databili negli anni immediatamente precedenti l’esilio, fra il 4 e l’8 d.C.) ed hanno una particolarità rispetto alle prime quindici: sono costituite da tre coppie di epistole in cui alla lettera dell’innamorato segue la risposta della donna, a differenze delle precedenti di cui abbiamo l’eliminazione di qualsiasi altra voce che non sia quella dell’eroina. L’idea di queste epistole “doppie” si attribuisce solitamente a Sabino, amico di Ovidio, che compose scherzosamente le risposte degli uomini alle prime quindici lettere (ne abbiamo testimonianza negli Amores II, 18, 27-34), inspirando poi lo stesso autore a sperimentare questo nuovo approccio epistolare.
Le protagoniste di quest’opera, tratte dal mito, sono trasportate in una dimensione quotidiana e domestica, vengono umanizzate, assumendo i tratti delle donne romane del genere elegiaco contemporaneo ad Ovidio: scrivono le loro lettere in un momento particolare della loro esistenza, in cui l’amato è lontano (volontariamente o meno), disperandosi per la loro condizione.
Il punto di vista dominante è naturalmente quello femminile (sebbene sia giusto ricordare che è un uomo, Ovidio, a comporre queste lettere e non una donna): il fulcro dell’opera sono le sofferenze delle eroine relictae (abbandonate), tormentate dall’amore, dai ricordi, dalle attese, dalla solitudine, dai rimpianti e della gelosia, le quali cercano di colmare il vuoto creato dall’assenza dei loro amati lasciandosi andare al lamento.
Le Heroides, quindi, sono una poesia di lamento femminile, a causa di un’infelicità provocata dall’abbandono e dalla disaffezione dei propri compagni, a volte da passioni incestuose (come per Fedra), da obbligate separazioni (come per Laodamia e Protesilao) o per la violenza paterna (come per Canace e Ipermestra).
I paesaggi desolati, solitari, selvaggi, malinconici accompagnano e completano il carattere teatrale della gestualità delle eroine (gli occhi piangenti rivolti verso il mare, le braccia tese verso l’amato lontano), mentre i fitti richiami, analogie, ripetizioni, ricorsività di ruoli e di gesti tra una lettera e l’altra permettono di unire e uniformare le varie vicende e iscriverle in quadro ideologico unitario.
Frequentemente viene contrapposta la simplicitas (ingenuità), l’attaccamento e la devozione delle donna alle bugie e l’infedeltà dall’amato, che già desidera e si unisce ad altre donne.
Come osserva acutamente Gianpiero Rosati, “le eroine ovidiane soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche – direi soprattutto – in quanto donne (un punto, questo, mai abbastanza rilevato dalla critica): è questa la condizione comune che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla paura, dalla violenza.”
Lascio qui l’elenco dei mittenti e dei destinatari delle lettere:

Enone e Paride (Heroides, 5)
Della storia d’amore fra Enone e Paride non abbiamo molte testimonianze letterarie: Omero e i tragici non ne parlano (forse potrebbe essere stata attestata nei Cypria, poema greco appartenente al Ciclo Troiano, il quale narrava gli eventi antecedenti all’Iliade), ci rimangono solo delle fonti ellenistiche (Licofrone, Bione, Apollodoro, Partenio ecc.) e tardo antiche (Quinto Smirneo) che si discostano in parte dal personaggio e dalla storia della ninfa che troviamo qui nelle Heroides.
Da queste fonti apprendiamo a grandi linee la loro storia :la madre di Paride, Ecuba, moglie incinta del re di Troia Priamo, sognò che il nascituro avrebbe segnato la fine della città di Troia, di conseguenza il bambino venne esposto e lasciato morire sul Monte Ida. Un pastore, però, lo trovò e lo allevò.
Qui Enone, ninfa della Troade, si innamora del giovane.
Dopo il giudizio delle dee, nel quale sceglie come la più bella Afrodite (scartando Era e Atena), Paride naviga verso Sparta da Elena, moglie del re di Sparta Menelao (fratello di Agamennone, re di Micene), la donna più bella del mondo, compenso promesso da Afrodite se fosse stata eletta vincitrice del giudizio. Enone tenta invano di trattenerlo: nonostante il suo amato parta comunque, gli promette di aiutarlo nel caso fosse stato ferito in guerra (era esperta dell’arte medica).
Quando però Paride viene ferito da Filottete durante la guerra di Troia e corre da lei per farsi curare, Enone, rancorosa per la sua infedeltà, si rifiuta di prestargli soccorso. Ci ripensa in un secondo momento e segue il suo amato fino a Troia (dove era appunto tornato), ma oramai è troppo tardi: Paride è morto. Distrutta dal dolore, Enone si uccide sul suo cadavere.
La lettera di Enone si immagina che venga scritta quando Paride è tornato a Troia, dopo aver rapito Elena, e sembra che la guerra di Troia sia stata già dichiarata da Agamennone e Menelao.
Enone in questi versi viene delineata da Ovidio come un’ingenua ninfa, che prega Paride di tornare tra le sue braccia, strabordanti di un amore tranquillo, sicuro, protetto, a differenza di quello di Elena, che porterà guerra, sofferenza e la morte dello stesso principe troiano.

Il testo
[Una ninfa dai gioghi dell’Ida invia questa lettera, perché la legga, al suo Paride, sebbene non voglia essere suo.] [1]
Mi leggi fino alla fine? O te lo proibisce la nuova sposa? Leggi tutto: non è una lettera scritta da una mano micenea [2]. Io, Enone di Pedaso[3], celeberrima tra le selve della Frigia, offesa mi dolgo di te, che sei mio, se consenti. Quale dio ha opposto la sua volontà ai miei desideri? Quale colpa mi impedisce di restar tua? Le pene meritate bisogna sopportarle di buon grado; fa invece soffrire la pena subita senza colpa.
Non eri ancora illustre quando io, ninfa generata da un grande fiume [4], ero contenta di te come marito. Tu che ora sei figlio di Priamo, allora (bando ai pudori, di fronte al vero) eri uno schiavo; e io, ninfa, accettai di andare in sposa a uno schiavo. Tante volte, in mezzo al gregge, riposammo al riparo di un albero, e l’erba mista alle foglie ci offerse un giaciglio. Tante volte, distesi su paglia e alto fieno, un’umile capanna ci riparò dalla candida brina. Chi ti indicava le balze adatte alla caccia, e in quali rupi le fiere nascondessero i piccoli? Tante volte, con te, ho teso le reti divise in maglie, tante volte ho spinto i cani veloci lungo le cime. I faggi, che hai inciso, conservano ancora il mio nome: “Enone” si legge, segnato dalla tua falce, e quanto crescono i tronchi, altrettanto cresce il mio nome[5]. O pioppo, vivi, ti prego, tu che piantato presso la riva sulla corteccia rugosa porti questa iscrizione: “Se mai Paride abbandonerà Enone e potrà ancora vivere, l’acqua dello Xanto correrà indietro alla fonte” [6]. Xanto, affrettati indietro, e voi acque correte a ritroso! Paride sopporta di aver abbandonato Enone.
Fu quello il giorno che decretò il mio miserando destino, allora ebbe inizio il cupo inverno di un amore fuggito, quando Venere, Giunone e (più bella in armi) Minerva vennero nude al tuo giudizio [7]. Palpitò il tuo petto sgomento e, mi narrasti, un tremore freddo ti percorse le rigide ossa. Consultai (il mio terrore era grande) le vecchie e i vecchi longevi: risultò che era un presagio funesto.
Furono abbattuti gli abeti, segate le travi e, armata la flotta, le onde cerulee accolsero le navi spalmate di cera [8]. Partisti piangendo: questo almeno non lo negare. Il tuo amore di ora è più disonorevole di quello passato. Piangesti, e vedesti i miei occhi piangenti; mescolammo, tristi, ambedue, il nostro pianto: non si stringe tanto l’olmo alla vite vicina quanto le tue braccia si avvinsero attorno al mio collo. Ah quante volte, quando lamentavi di essere trattenuto dal vento, i tuoi compagni risero: il vento era propizio! Quante volte, dopo il commiato, mi richiamasti per darmi altri baci, e quanto a fatica la tua lingua riuscì a dire “addio”! una brezza leggera solleva la tela che pende dall’albero eretto e l’acqua, scavata dai remi, biancheggia. Accompagno, infelice, con gli occhi fin dove posso le vele che vanno e bagno la sabbia di pianto, implorando le verdi Nereidi [9] che tu torni al più presto: che torni al più presto, certo, per la mia rovina. Grazie ai miei voti sei quindi tornato, ma tornato per un’altra. Ahimè, per una funesta rivale io fui persuasiva!
Sull’immenso abisso marino si staglia un molo naturale: un tempo era un monte: si oppone alle onde del mare. Di lì riconobbi, al loro spuntare, le vele della tua nave, e un impulso mi spinse a correrti incontro tra i flutti. Mentre esitavo, mi colpì, in cima alla prora, un fulgore di porpora: ebbi timore: non era il tuo abbigliamento. Si accosta la nave, e sotto la rapida brezza approdò a terra; con cuore tremante vidi un volto di donna. E non era abbastanza (perché mi attardavo, insensata?): la turpe amante si stringeva al tuo seno. Allora, sì, le vesti strappai, il petto percossi, e con le dure unghie graffia le madide guance, e l’Ida sacro riempii di mesti lamenti [10]; là, tra le mie rocce, andai a portare il mio pianto. Così anche Elena soffra, e abbandonata dal coniuge pianga; le pene che per prima mi ha inflitto le subisca ella stessa!
Ormai ti si addicono quelle che ti seguano sul mare aperto, lasciando il legittimo sposo. Ma quando eri povero e guidavi, pastore, gli armenti, nessun’altra che Enone nella tua povertà ti fu sposa. Non sono abbagliata dalle ricchezze e non aspiro alla tua reggia, o ad essere detta una delle tante nuore di Priamo. Non che Priamo, tuttavia, rifiuterebbe di essere suocero di una ninfa o che, come nuora, mi si dovrebbe nascondere a Ecuba. Sono degna, e lo desidero, di diventare sposa di un potente: ho mani che potrebbero ben reggere uno scettro. E non mi disprezzare se ho giaciuto con te sopra foglie di faggio: a un letto di porpora sono più adatta.
E infine il mio amore è privo di rischi: nessuno ti fa guerra, e il mare non trasporta navi per la vendetta. La figlia di Tindaro [11], fuggiasca, è reclamata con armi nemiche: con questa dote, orgogliosa, fa il suo ingresso nel tuo talamo. Se renderla ai Greci, chiedilo a tuo fratello Ettore, o a Polidamante, a Deifobo. Chiedi il consiglio del grave Antenore, di Priamo stesso, loro la cui vecchiaia è maestra [12]. Davvero un brutto inizio, anteporre alla patria una donna rapita: la tua causa è vergognosa, giusta guerra il marito ti muove. E inoltre, se sei saggio, non sperare fedele la Spartana, lei che tanto in fretta ti è corsa tra le braccia. Come il minore Atride [13] grida contro l’oltraggio del letto coniugale e lamenta l’offesa dell’adulterio, anche tu griderai. Non c’è arte che ripara il pudore oltraggiato: viene meno una volta per sempre. Ella arde d’amore per te? Ma così amò anche Menelao, che ora giace, illudo nel letto deserto. Oh felice Andromaca [14], ben sposata a un marito sicuro! Su esempio del fratello dovevi avermi in moglie. Ma tu sei più leggero delle foglie, quando, ormai prive di umore, inaridite volteggiano al soffio dei venti; c’è meno peso in te che in cima alla spiga che, leggera, irrigidisce sotto l’ardore assiduo del sole.
Così tua sorella [15] (lo ricordo) un tempo cantava, così, le chiome sparse, a me vaticinava: “Che fai, Enone? Perché affidi semi alla sabbia? Inutilmente i buoi arano la spiaggia. Ecco venire una greca giovenca, che te, la patria e la tua casa rovinerà. Ah, impediscilo! Ecco venire una greca giovenca. Finchè si può, affondate nel mare la nave funesta. Ah! Quanto sangue frigio essa porta con sé”. Aveva parlato: le ancelle la trascinarono via nel delirio, ma i miei biondi capelli si rizzarono. Ahi, troppo veracemente la mia sventura profetavi: ecco, una greca giovenca possiede i miei pascoli!
Per quanto sia bella d’aspetto, certo è un’adultera: ha abbandonato, sedotta da un ospite, gli dei coniugali. Prima di te Teseo (se non mi inganno sul nome), un certo Teseo la rapì dalla patria [16]. Dovremo credere che, giovane e ardente, la restituì vergine? Come lo so così bene, mi chiedi? Io amo. Puoi pure chiamarla violenza, e velare la colpa col nome: ma una donna tante volte rapita, si è fatta rapire lei stessa. Enone invece rimane casta per il marito, che pure la tradisce; tu stesso, secondo le tue leggi, potevi essere tradito.
I Satiri guizzanti (ero nascosta protetta dalle selve) mi cercarono, schiera impudente, con agile piede, e mi cercò Fauno, cinto la testa cornuta da una ghianda di aghi di pino, dove l’Ida si gonfia nei suoi immensi gioghi. Mi ha amato poi, insigne per la sua lira, il costruttore delle mura di Troia [17]: è lui che ha il trofeo della mia verginità. E anche questo non senza lottare: gli strappai con le unghie i capelli, e il suo volto fu tutto graffiato dalle mie dita. E non chiesi, come prezzo della violenza, gemme e oro: è turpe comprare con doni un corpo libero. Fu lui stesso, ritenendomi degna, ad affidarmi le arte mediche e a far partecipi dei suoi doni le mie mani. Qualunque erba che abbia efficacia, qualunque radice capace di guarire nascano al mondo, sono mie. Ahimè infelice, che l’amore non si può curare con le erbe! Esperta in quest’arte, è la mia stessa arte a tradirmi. Perfino il suo scopritore si dice che abbia pascolato le vacche di Fere e sia stato ferito dal mio stesso fuoco [18]. Quell’aiuto che non può darmi la terra feconda creatrice di erbe né un dio, me lo puoi dare tu. Tu puoi e io lo merito: abbi pietà di una degna fanciulla! Io non porto con me i Danai e le loro armi cruente, ma sono tua, ero con te fin dagli anni dell’infanzia e tua, per il tempo che resta, chiedo di essere ancora.
[Nympha suo Paridi, quamvis suus esse recuset,
mittit ab Idaeis verba legenda iugis.]
Perlegis? an coniunx prohibet nova? perlege; non est
ista Mycenaea littera facta manu.
Pegasis Oenone, Phrygiis celeberrima silvis,
laesa queror de te, si sinis, ipsa meo.
Quis deus opposuit nostris sua numina votis?
Ne tua permaneam, quod mihi crimen obest?
Leniter, ex merito quidquid patiare, ferendumst;
quae venit indigno poena, dolenda venit.
Nondum tantus eras, cum te contenta marito
edita de magni flumine nympha fui.
Qui nunc Priamides (absit reverentia vero),
servus eras; servo nubere nympha tuli.
Saepe greges inter requievimus arbore tecti
mixtaque cum foliis praebuit herba torum;
saepe super stramen fenoque iacentibus alto
defensa est humili cana pruina casa.
Quis tibi monstrabat saltus venatibus aptos
et tegeret catulos qua fera rupe suos?
Retia saepe comes maculis distenta tetendi,
saepe citos egi per iuga longa canes.
Incisae servant a te mea nomina fagi
et legor Oenone falce notata tua,
et quantum trunci, tantum mea nomina crescunt.
Crescite et in titulos surgite recta meos.
Populus est, memini, fluviali consita rivo,
est in qua nostri littera scripta memor;
popule, vive, precor, quae consita margine ripae
hoc in rugoso cortice carmen habes:
“cum Paris Oenone poterit spirare relicta,
ad fontem Xanthi versa recurret aqua.”
Xanthe, retro propera, versaeque recurrite lymphae.
Sustinet Oenonen deseruisse Paris.
Illa dies fatum miserae mihi dixit, ab illa
pessima mutati coepit amoris hiemps,
qua Venus et Iuno sumptisque decentior armis
venit in arbitrium nuda Minerva tuum.
Attoniti micuere sinus, gelidusque cucurrit,
ut mihi narrasti, dure, per ossa tremor.
Consulvi (neque enim modice terrebar) anusque
longaevosque senes; constitit esse nefas.
Caesa abies, sectaeque trabes, et classe parata
caerula ceratas accipit unda rates.
Flesti discedens; hoc saltem parce negare.
Praeterito magis est iste pudendus amor.
Et flesti et nostros vidisti flentis ocellos;
miscuimus lacrimas maestus uterque suas;
non sic adpositis vincitur vitibus ulmus,
ut tua sunt collo bracchia nexa meo.
A! quotiens, cum te vento quererere teneri,
riserunt comites; ille secundus erat.
Oscula dimissae quotiens repetita dedisti;
quam vix sustinuit dicere lingua “vale.”
Aura levis rigido pendentia lintea malo
suscitat et remis eruta canet aqua.
Prosequor infelix oculis abeuntia vela,
qua licet, et lacrimis umet arena meis,
utque celer venias, virides Nereidas oro,
scilicet ut venias in mea damna celer.
Votis ergo meis alii rediture redisti.
Ei mihi! pro dira paelice blanda fui.
Aspicit immensum moles nativa profundum;
mons fuit; aequoreis illa resistit aquis.
Hinc ego vela tuae cognovi prima carinae.
Et mihi per fluctus impetus ire fuit.
Dum moror, in summa fulsit mihi purpura prora.
Pertimui, cultus non erat ille tuus.
Fit propior terrasque cita ratis attigit aura;
femineas vidi corde tremente genas.
Non satis id fuerat (quid enim furiosa morabar?);
haerebat gremio turpis amica tuo.
Tunc vero rupique sinus et pectora planxi
et secui madidas ungue rigente genas
implevique sacram querulis ululatibus Iden;
illuc has lacrimas in mea saxa tuli.
Sic Helene doleat desertaque coniuge ploret,
quaeque prior nobis intulit, ipsa ferat.
Nunc tibi conveniunt, quae te per aperta sequantur
aequora legitimos destituantque viros.
At cum pauper eras armentaque pastor agebas,
nulla nisi Oenone pauperis uxor erat.
Non ego miror opes, nec me tua regia tangit
nec de tot Priami dicar ut una nurus.
Non tamen ut Priamus nymphae socer esse recuset
aut Hecubae fuerim dissimulanda nurus.
Dignaque sum et cupio fieri matrona potentis;
sunt mihi, quas possint sceptra decere, manus;
nec me, faginea quod tecum fronde iacebam,
despice; purpureo sum magis apta toro.
Denique tutus amor meus est; mihi nulla parantur
bella nec ultrices advehit unda rates.
Tyndaris infestis fugitiva reposcitur armis;
hac venit in thalamos dote superba tuos.
Quae si sit Danais reddenda, vel Hectora fratrem,
vel cum Deiphobo Polydamanta roga;
quid gravis Antenor, Priamus quid suadeat ipse
consule, quis aetas longa magistra fuit.
Turpe rudimentum, patriae praeponere raptam;
causa pudenda tua est; iusta vir arma movet.
Nec tibi, si sapias, fidam promitte Lacaenam,
quae sit in amplexus tam cito versa tuos.
Ut minor Atrides temerati foedera lecti
clamat et externi laesus amore dolet,
tu quoque clamabis. nulla reparabilis arte
laesa pudicitia est; deperit illa semel.
Ardet amore tui. sic et Menelaon amavit;
nunc iacet in viduo credulus ille toro.
Felix Andromache, certo bene nupta marito!
Uxor ad exemplum fratris habenda fui;
tu levior foliis, tum cum sine pondere suci
mobilibus ventis arida facta volant;
et minus est in te quam summa pondus arista,
quae levis assiduis solibus usta riget.
Hoc tua (nam recolo) quondam germana canebat,
sic mihi diffusis vaticinata comis:
“Quid facis, Oenone? quid harenae semina mandas?
Non profecturis litora bubus aras.
Graia iuvenca venit, quae te patriamque domumque
perdat. Io! prohibe. Graia iuvenca venit.
Dum licet, obscenam ponto demergite puppim.
Heu! quantum Phrygii sanguinis illa vehit.”
Dixerat; in cursu famulae rapuere furentem,
at mihi flaventes diriguere comae.
A! nimium miserae vates mihi vera fuisti:
possidet, en, saltus Graia iuvenca meos.
Sit facie quamuis insignis, adultera certest.
Deservit socios hospite capta deos.
Illam de patria Theseus (nisi nomine fallor)
nescio quis Theseus abstulit ante sua.
A iuvene et cupido credatur reddita virgo?
Unde hoc compererim tam bene, quaeris? amo.
Vim licet appelles et culpam nomine veles;
quae totiens rapta est, praebuit ipsa rapi.
At manet Oenone fallenti casta marito;
et poteras falli legibus ipse tuis.
Me Satyri celeres (silvis ego tecta latebam)
quaesierunt rapido, turba proterva, pede
cornigerumque caput pinu praecinctus acuta
faunus in immensis, qua tumet Ida, iugis.
Me fide conspicuus Troiae munitor amavit;
ille meae spolium virginitatis habet,
id quoque luctando; rupi tamen ungue capillos,
oraque sunt digitis aspera facta meis.
Nec pretium stupri gemmas aurumque poposci;
turpiter ingenuum munera corpus emunt.
Ipse, ratus dignam, medicas mihi tradidit artes
admisitque meas ad sua dona manus.
Quaecumque herba potens ad opem radixque medendo
utilis in toto nascitur orbe, meast.
Me miseram, quod amor non est medicabilis herbis.
Deficior prudens artis ab arte mea.
Ipse repertor opis vaccas pavisse Pheraeas
fertur, et e nostro saucius igne fuit.
Quod nec graminibus tellus fecunda creandis
nec deus, auxilium tu mihi ferre potes.
Et potes, et merui. dignae miserere puellae.
Non ego cum Danais arma cruenta fero;
sed tua sum tecumque fui puerilibus annis,
et tua, quod superest temporis, esse precor.
Note
[1] Questi primi due distici sono generalmente considerati spuri e sono tramandati solo da una parte della tradizione manoscritta.
[2] La nuova sposa di Paride sarebbe Elena, moglie di Menelao, fratello di Agamennone, che era il re di Micene: per questo motivo Enone specifica al suo amato che è sua la lettera e non di Agamennone o Menelao, i quali naturalmente bramano vendetta per il rapimento di Elena.
[3] Pedaso è una città sul Monte Ida.
[4] Il padre di Enone è il fiume Cebrene, che si trova in Troade. In questi versi Enone vuole sottolineare la sua alta condizione rispetto a quella di Paride, che è un pastore, ancora ignaro del suo sangue regale.
[5] L’incisione da parte dell’innamorato del nome della sua amata su una corteccia è un motivo topico nella letteratura erotica antica.
[6] Xanto è un fiume della Troade (noto anche sotto il nome di Scamadro) che nasce dal monte Ida. In questi versi Enone ricorre alla figura retorica dell’adynaton (spesso ricorrente nelle attestazioni di amore eterno), il quale asserisce l’impossibilità che una cosa avvenga, subordinandone l’avverarsi a un altro fatto ritenuto impossibile.
[7] Riferimento al giudizio di Paride, vedi paragrafo precedente.
[8] Paride narra a Enone i preparativi per il viaggio verso Sparta.
[9] Enone può riferirsi qui, attraverso l’epiteto “Nereidi” sia alle divinità marine del mare tranquillo, figlie di Nereo, sia anche alle acque del mare.
[10] Le vesti strappate, il petto percosso, i lamenti, i graffi sul viso sono gesti tipici che le donne greche e romane compivano durante le cerimonie funebri: il tradimento dell’amato viene visto qui da Enone proprio come un lutto, la fine del loro amore è per lei morte. L’Ida è sacro perché sede del culto di Cibele, la Grande Madre.
[11] Spesso Elena è indicata come figlia di Tindaro, re di Sparta e marito di Leda: però in realtà lei è il frutto dell’unione fra Leda e Zeus.
[12] Deifobo (che sposa Elena dopo la morte di Paride e viene poi ucciso da Menelao) ed Ettore sono fratelli di Paride, figli di Priamo, mentre Polidamante era un forte guerriero favorevole alla restituzione di Elena. Come favorevole lo era anche Antenore, capo e consigliere troiano.
[13] Patronimico per Menelao, fratello minore di Agamennone, entrambi figlio di Atreo.
[14] Moglie di Ettore. Il loro matrimonio era felice.
[15] La sorella di Paride è Cassandra, che rifiutò l’amore del dio Apollo: per questo lui le diede il dono della profezia, ma fece anche in modo che i suoi vaticini non vengano mai creduti. Le profezia, come quella che pronuncia Cassandra, sono oscure, enigmatiche e dense di linguaggio metaforico.
[16] Secondo una versione del mito, Teseo, col suo amico Piritoo, rapì la giovane Elena: venne poi liberata dai suoi fratelli, Castore e Polluce, i Dioscuri.
[17] Il dio in questione è Apollo, la cui unione con Enone non viene menzionata nelle altre tradizioni, probabilmente è un’aggiunta ovidiana. In questi versi, Enone fa sfoggio dei suoi pretendenti passati (solitamente illustri) e questo è un motivo che troviamo ricorrentemente nelle proteste degli innamorati non corrisposti.
[18] Lo scopritore dell’arte medica è appunto Apollo. Qui Ovidio richiama una tradizione per cui Apollo sarebbe stato pastore a Fere, in Tessaglia, per amore del giovane Admeto: Apollo, dio della medicina, non riesce a medicare le sue ferite d’amore. Questo è un altro motivo topico della poesia erotica, quello dell’amore incurabile.
Bibliografia
- Conte G.B., Letteratura latina – Dall’alta repubblica all’età di Augusto, Milano 2012 (compralo qui).
- Diotti A. – Dossi S. – Signoracci F., Res et fabula, vol.2, Torino 2016 (compralo qui).
- Ovidio, Lettere di Eroine, Milano 2018 (compralo qui).


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