Articolo,  Parole d'autore

Ovidio e l’elegia “al femminile”

“O mutevole figlio di Esone, più incerto della brezza di primavera,
perché le tue parole non hanno il peso di una promessa?
Eri partito di qui che eri il mio sposo, ma sei tornato di là non più mio.”

– Ovidio, Heroides, 6, 109-111.

Vita

A fornirci molte notizie autobiografiche è lo stesso Ovidio, in particolare nell’elegia 4, 10 dei Tristia (compralo qui): Publio Ovidio Nasone (questo è il suo nome completo) nasce a Sulmona, in Abruzzo, il 20 marzo del 43 a.C. Grazie all’agiatezza della sua famiglia, di rango equestre, riceve un’ottima educazione letteraria e frequenta a Roma le migliori scuole di retorica (quelle di Arellio Fusco e Porcio Latrone), in vista della carriera forense e politica. Completa gli studi compiendo il rituale viaggio in Grecia (ad Atene), visitando anche l’Egitto, l’Asia Minore e la Sicilia per circa un anno.

Ma, al ritorno a Roma, dopo aver ricoperto solo alcune cariche minori, prima di diventare questore, preferì la poesia alla vita forense e politica: entra nel circolo letterario di Messalla Corvino, dove stringe rapporti con i maggiori poeti di Roma, in particolare con Tibullo. Divenne presto famoso con la sua tragedia Medea e la prima produzione elegiaca.

Si sposa e divorzia due volte, trovando la serenità coniugale solo con la terza moglie, Fabia.

Improvvisamente, nell’8 d.C., all’apice del successo e impegnato nella composizione dei Fasti  (compralo qui) e delle Metamorfosi (compralo qui), Ovidio è colto da un improvviso provvedimento punitivo di Augusto, che lo relega sul mar Nero, a Tomi (oggi Costanza, in Romania) senza familiari né amici. Le cause della relegazione (che, a differenza dell’esilio, non comportava perdita dei beni e della cittadinanza) non ci sono ben chiare (Ovidio vi accenna velatamente in Tristia, 2, 207): sembra che fosse implicato in uno scandalo di corte, in cui era coinvolta Vipsania Giulia Agrippina, nipote di Augusto, accusata di adulterio con Decimo Giulio Silano. L’accusa ufficiale che gli viene imputata, però, fu l’aver composto l’Ars Amatoria, opera che avrebbe incitato le donne all’adulterio (Ovidio ne fa cenno in Tristia II, 207-208). Durante la condanna continua la sua attività poetica, lamentandosi di dover trascorrere i suoi ultimi anni di vita in mezzo ai Geti, che lui considera gente rozza e inospitale.

Ovidio tenta di far revocare la relegazione sia sotto Augusto sia sotto Tiberio, ma invano: Ovidio muore solo a Tomi nel 17 o 18 d.C. 

Publio Ovidio Nasone nelle Cronache di Norimberga, 1493.

Le Heroides e le altre opere 

Ovidio fu un autore molto prolifico, il cui corpus può essere diviso in tre sezioni: la prima, tra il 23 a.C. e il 2 d.C., contenente opere elegiache di argomento amoroso (Amores, Heroides, Ars Amatoria ed elegie); la seconda fase, quella della maturità, compresa tra il 2 e l’8 d.C. (Metamorfosi e Fasti); e infine il periodo dell’esilio a Tomi, dall’8 al 17/18 d.C., che include elegie di invettiva e rimpianto (Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis).

Le Heroides, come abbiamo visto, appartengono alla prima fase compositiva di Ovidio: si tratta di una raccolta di lettere in distici elegiaci, che si immaginano scritte da alcune eroine del mito ai loro amati o mariti lontani o che le hanno abbandonate. Le prime quindici lettere sono state scritte tra il 20 e il 16 a.C., mentre le ultime sei sono state aggiunte successivamente (databili negli anni immediatamente precedenti l’esilio, fra il 4 e l’8 d.C.) ed hanno una particolarità rispetto alle prime quindici: sono costituite da tre coppie di epistole in cui alla lettera dell’innamorato segue la risposta della donna, a differenze delle precedenti di cui abbiamo l’eliminazione di qualsiasi altra voce che non sia quella dell’eroina. L’idea di queste epistole “doppie” si attribuisce solitamente a Sabino, amico di Ovidio, che compose scherzosamente le risposte degli uomini alle prime quindici lettere (ne abbiamo testimonianza negli Amores II, 18, 27-34), inspirando poi lo stesso autore a sperimentare questo nuovo approccio epistolare.

Le protagoniste di quest’opera, tratte dal mito, sono trasportate in una dimensione quotidiana e domestica, vengono umanizzate, assumendo i tratti delle donne romane del genere elegiaco contemporaneo ad Ovidio: scrivono le loro lettere in un momento particolare della loro esistenza, in cui l’amato è lontano (volontariamente o meno), disperandosi per la loro condizione.

Il punto di vista dominante è naturalmente quello femminile (sebbene sia giusto ricordare che è un uomo, Ovidio, a comporre queste lettere e non una donna): il fulcro dell’opera sono le sofferenze delle eroine relictae (abbandonate), tormentate dall’amore, dai ricordi, dalle attese, dalla solitudine, dai rimpianti e della gelosia, le quali cercano di colmare il vuoto creato dall’assenza dei loro amati lasciandosi andare al lamento.

Le Heroides, quindi, sono una poesia di lamento femminile, a causa di un’infelicità provocata dall’abbandono e dalla disaffezione dei propri compagni, a volte da passioni incestuose (come per Fedra), da obbligate separazioni (come per Laodamia e Protesilao) o per la violenza paterna (come per Canace e Ipermestra).

I paesaggi desolati, solitari, selvaggi, malinconici accompagnano e completano il carattere teatrale della gestualità delle eroine (gli occhi piangenti rivolti verso il mare, le braccia tese verso l’amato lontano), mentre i fitti richiami, analogie, ripetizioni, ricorsività di ruoli e di gesti tra una lettera e l’altra permettono di unire e uniformare le varie vicende e iscriverle in quadro ideologico unitario.

Frequentemente viene contrapposta la simplicitas (ingenuità), l’attaccamento e la devozione delle donna alle bugie e l’infedeltà dall’amato, che già desidera e si unisce ad altre donne.

Come osserva acutamente Gianpiero Rosati, “le eroine ovidiane soffrono insomma non solo in quanto innamorate tradite o non corrisposte, ma anche – direi soprattutto – in quanto donne (un punto, questo, mai abbastanza rilevato dalla critica): è questa la condizione comune che le condanna a un’esistenza segnata dall’abbandono, dall’umiliazione, dalla paura, dalla violenza.

Lascio qui l’elenco dei mittenti e dei destinatari delle lettere:

  1. Penelope a Ulisse
  2. Fillide a Demofoonte
  3. Briseide ad Achille
  4. Fedra a Ippolito
  5. Enone a Paride
  6. Ipsipile a Giasone
  7. Didone a Enea
  8. Ermione a Oreste
  9. Deianira ad Ercole
  10. Arianna a Teseo
  11. Canace a Macareo

Frammento di un affresco romano dalla Villa Romana Maasbracht-Steenakkerlabel, databile tra il 100 e 270 d.C. Limburgs Museum.

Enone e Paride (Heroides, 5)

Della storia d’amore fra Enone e Paride non abbiamo molte testimonianze letterarie: Omero e i tragici non ne parlano (forse potrebbe essere stata attestata nei Cypria, poema greco appartenente al Ciclo Troiano, il quale narrava gli eventi antecedenti all’Iliade), ci rimangono solo delle fonti ellenistiche (Licofrone, Bione, Apollodoro, Partenio ecc.) e tardo antiche (Quinto Smirneo) che si discostano in parte dal personaggio e dalla storia della ninfa che troviamo qui nelle Heroides.

Da queste fonti apprendiamo a grandi linee la loro storia :la madre di Paride, Ecuba, moglie incinta del re di Troia Priamo, sognò che il nascituro avrebbe segnato la fine della città di Troia, di conseguenza il bambino venne esposto e lasciato morire sul Monte Ida. Un pastore, però, lo trovò e lo allevò.

Qui Enone, ninfa della Troade, si innamora del giovane.

Dopo il giudizio delle dee, nel quale sceglie come la più bella Afrodite (scartando Era e Atena), Paride naviga verso Sparta da Elena, moglie del re di Sparta Menelao (fratello di Agamennone, re di Micene), la donna più bella del mondo, compenso promesso da Afrodite se fosse stata eletta vincitrice del giudizio. Enone tenta invano di trattenerlo: nonostante il suo amato parta comunque, gli promette di aiutarlo nel caso fosse stato ferito in guerra (era esperta dell’arte medica).

Quando però Paride viene ferito da Filottete durante la guerra di Troia e corre da lei per farsi curare, Enone, rancorosa per la sua infedeltà, si rifiuta di prestargli soccorso. Ci ripensa in un secondo momento e segue il suo amato fino a Troia (dove era appunto tornato), ma oramai è troppo tardi: Paride è morto. Distrutta dal dolore, Enone si uccide sul suo cadavere.

La lettera di Enone si immagina che venga scritta quando Paride è tornato a Troia, dopo aver rapito Elena, e sembra che la guerra di Troia sia stata già dichiarata da Agamennone e Menelao.

Enone in questi versi viene delineata da Ovidio come un’ingenua ninfa, che prega Paride di tornare tra le sue braccia, strabordanti di un amore tranquillo, sicuro, protetto, a differenza di quello di Elena, che porterà guerra, sofferenza e la morte dello stesso principe troiano.

Affresco di Paride ed Elena, I secolo d.C. Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

Il testo

Note

[1] Questi primi due distici sono generalmente considerati spuri e sono tramandati solo da una parte della tradizione manoscritta.

[2] La nuova sposa di Paride sarebbe Elena, moglie di Menelao, fratello di Agamennone, che era il re di Micene: per questo motivo Enone specifica al suo amato che è sua la lettera e non di Agamennone o Menelao, i quali naturalmente bramano vendetta per il rapimento di Elena.

[3] Pedaso è una città sul Monte Ida.

[4] Il padre di Enone è il fiume Cebrene, che si trova in Troade. In questi versi Enone vuole sottolineare la sua alta condizione rispetto a quella di Paride, che è un pastore, ancora ignaro del suo sangue regale.

[5] L’incisione da parte dell’innamorato del nome della sua amata su una corteccia è un motivo topico nella letteratura erotica antica.

[6] Xanto è un fiume della Troade (noto anche sotto il nome di Scamadro) che nasce dal monte Ida. In questi versi Enone ricorre alla figura retorica dell’adynaton (spesso ricorrente nelle attestazioni di amore eterno), il quale asserisce l’impossibilità che una cosa avvenga, subordinandone l’avverarsi a un altro fatto ritenuto impossibile.

[7] Riferimento al giudizio di Paride, vedi paragrafo precedente.

[8] Paride narra a Enone i preparativi per il viaggio verso Sparta.

[9] Enone può riferirsi qui, attraverso l’epiteto “Nereidi” sia alle divinità marine del mare tranquillo, figlie di Nereo, sia anche alle acque del mare.

[10] Le vesti strappate, il petto percosso, i lamenti, i graffi sul viso sono gesti tipici che le donne greche e romane compivano durante le cerimonie funebri: il tradimento dell’amato viene visto qui da Enone proprio come un lutto, la fine del loro amore è per lei morte. L’Ida è sacro perché sede del culto di Cibele, la Grande Madre.

[11] Spesso Elena è indicata come figlia di Tindaro, re di Sparta e marito di Leda: però in realtà lei è il frutto dell’unione fra Leda e Zeus.

[12] Deifobo (che sposa Elena dopo la morte di Paride e viene poi ucciso da Menelao) ed Ettore sono fratelli di Paride, figli di Priamo, mentre Polidamante era un forte guerriero favorevole alla restituzione di Elena. Come favorevole lo era anche Antenore, capo e consigliere troiano.

[13] Patronimico per Menelao, fratello minore di Agamennone, entrambi figlio di Atreo.

[14] Moglie di Ettore. Il loro matrimonio era felice.

[15] La sorella di Paride è Cassandra, che rifiutò l’amore del dio Apollo: per questo lui le diede il dono della profezia, ma fece anche in modo che i suoi vaticini non vengano mai creduti. Le profezia, come quella che pronuncia Cassandra, sono oscure, enigmatiche e dense di linguaggio metaforico.

[16] Secondo una versione del mito, Teseo, col suo amico Piritoo, rapì la giovane Elena: venne poi liberata dai suoi fratelli, Castore e Polluce, i Dioscuri.

[17] Il dio in questione è Apollo, la cui unione con Enone non viene menzionata nelle altre tradizioni, probabilmente è un’aggiunta ovidiana. In questi versi, Enone fa sfoggio dei suoi pretendenti passati (solitamente illustri) e questo è un motivo che troviamo ricorrentemente nelle proteste degli innamorati non corrisposti.

[18] Lo scopritore dell’arte medica è appunto Apollo. Qui Ovidio richiama una tradizione per cui Apollo sarebbe stato pastore a Fere, in Tessaglia, per amore del giovane Admeto: Apollo, dio della medicina, non riesce a medicare le sue ferite d’amore. Questo è un altro motivo topico della poesia erotica, quello dell’amore incurabile.

Bibliografia

 
 
* L’immagine in copertina è Le rovine di Kalsmunt vicino a Wetzlar. Rovina su una montagna, vista su una valle del fiume Broad. Una coppia che legge in un prato in primo piano di  Friedrich Christian Reinermann, 1805, acquerello. 
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