
Don Chisciotte nella Fossa
Cibo per tutti
“Il Buco” è stato acquistato da Netflix nel 2020, in pieno primo lockdown. Il periodo era straordinariamente propizio per le piattaforme streaming, e anche film di provenienza non così illustre o senza budget roboanti potevano sperare in un certo successo. Tuttavia, “Il Buco” ebbe giusto il tempo di farsi notare sulle home degli utenti (incluso il sottoscritto), prima di farsi risucchiare dai nastri trasportatori degli algoritmi.
Un’accoglienza che, a conti fatti, è comprensibile. Produzione spagnola del 2019, con la regia di Galder Gaztelu-Urrutia, “Il Buco” è una distopia atipica, che punta molto sul simbolismo e l’interiorità, e allo stesso tempo presenta una realtà abietta, orrenda, sanguinosa. Al centro dell’asciutta narrazione (e dello spazio scenico stesso) sta il Buco, o meglio la Fossa, una profondissima voragine quadrangolare intorno alla quale è stata costruita una prigione articolata su più livelli, ognuno dei quali occupato da due ospiti. Una volta al giorno, dalla scintillante cucina del livello più alto della struttura (lo zero) scende lungo la Fossa una piattaforma imbandita con ogni sorta di leccornia, dalla quale i prigionieri, due per livello, possono ricavare il loro pasto. Il cibo però non può essere conservato fuori dalla piattaforma, e ogni mese gli “ospiti” vengono narcotizzati e ridistribuiti casualmente in un altro livello. L’obbiettivo ufficiale dei creatori di questo grande esperimento (chiamati misteriosamente “l’amministrazione”) è di stimolare una “solidarietà spontanea”, sorretta dalla consapevolezza della possibilità di essere destinati ad un livello inferiore il mese successivo e dalla necessità di razionare il cibo per la propria sopravvivenza e per mantenere un rapporto di fiducia con i propri compagni. Il risultato però è completamente opposto: chi sta in alto, disponendo arbitrariamente delle risorse, non si cura di chi sta in basso, spinto da naturale egoismo o dalla fame o dalla paura della stessa. Non resta più nulla delle sovrastrutture della vita civilizzata, né fra i privilegiati, voraci e smaniosi, né fra gli ultimi, divisi fra prede e cacciatori da una lotta feroce ma inevitabile.
Un libro per salvarli e dal buio liberarli
Il protagonista, Goreng, è il nuovo arrivato nella Fossa. È un uomo apparentemente irrilevante, mite e riflessivo, ma, nonostante tutte le brutali lezioni che la prigione e le sue vittime cercheranno di impartirgli, riuscirà a mantenere viva un’idea che potrebbe scardinare il sistema. Ed è proprio tale idea che ci interessa in questa sede. Uno dei simboli più importanti dell’eccezionalità di Goreng è l’oggetto personale che ogni prigioniero può scegliere di portare con sé durante la detenzione: il suo è un libro, Don Chisciotte della Mancia (acquistalo qui), unico in mezzo alle armi, utensili, souvenir dei suoi compagni. Già solo il libro nella sua generica concretezza materiale basterebbe a far intuire la soluzione proposta dall’autore, ma anche la scelta del Don Chisciotte non è casuale. Goreng infatti presenta molte affinità con l’eroe di Cervantes: entrambi affrontano un’avventura non compresa da chi sta loro intorno, entrambi fanno parte di un mondo cinico e amorale, in cui il loro ruolo di eroi sembra distorto e grottesco e in cui loro stessi fanno fatica a distinguere fra la realtà e le loro fantasie. Goreng viene definito per le sue convinzioni “messia della merda” e il “messaggio” che cerca di lasciare ai potenti dell’amministrazione sembrerà fino a poco prima della fine ridicolo e insignificante. La conclusione della vicenda (forse un po’ troppo sbrigativa e che lascia aperti degli interrogativi sulla natura della Fossa) segna il riscatto della missione di Goreng, che arriva a scoprire un miracoloso spiraglio di innocenza in fondo all’abisso.
Il libro di Don Chisciotte rimane inerte per praticamente tutto il film, quasi rappresentasse la sconfitta e l’imbarbarimento del suo portatore, tanto che la prima volta che lo vediamo aperto è quando Goreng ne strappa una pagina per ingerirla e mitigare i morsi della fame. Negli ultimi minuti, però, proprio mentre il suo progetto sembra naufragare, vediamo il protagonista leggere un estratto dell’opera:
Il grande che fosse vizioso sfoggerebbe il vizio in grado eminente, ed il ricco non liberale sarebbe un miserabile avaro; infatti, chi tiene ricchezze non è già felice per possederle, ma per consumarle col farne buon uso.
Si tratta di un passo del capitolo sei del secondo libro dedicato all’hidalgo, dove Chisciotte discute con la nipote della sua serva della magnanimità dell’autentico cavaliere. Il parallelo con la gestione del cibo all’interno della Fossa è evidente. Alla visione completamente pessimistica e disincantata delle costruzioni politiche e sociali, che falliscono nel loro tentativo di “istituzionalizzare” la concordia fra i loro membri, si oppone la possibilità lasciata aperta ai singoli individui di conservare la propria umanità ed aiutare chi li circonda a fare altrettanto. Come nel Seicento la nobiltà d’animo dei signori è la sola qualità che dovrebbe distinguerli dal popolo e porre rimedio alle ingiustizie, così oggi il fattore umano è l’unico che può opporsi a una struttura meccanicistica, di azioni e reazioni specifiche e rigidamente determinate (“nessun cambiamento si produce spontaneamente”, afferma Goreng). Certo, è una prospettiva non troppo confortante, inquietantemente vicina ai sentimenti che hanno condotto ai totalitarismi e ai culti della personalità: la ricerca di un equilibrio fra l’io e la collettività non si può certo racchiudere nelle mura di una prigione, ed è forse la sfida (la maledizione?) più grande della nostra specie.
*L’immagine in copertina è Pavimento non spazzato, mosaico di Heracleitus, II sec. a.C., Musei vaticani.
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