Inedito,  Prosa

Cassiopea

Quante cose non le ho detto. In fondo il terrore
di perderla ora, non è l’ansia “del possesso”
ma la paura di non poterle più dire queste cose.

 – Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

Sono andata a cercarti: sei una costellazione del cielo boreale, costituita da un gruppo di stelle, in posizione simmetrica dell’Orsa Maggiore rispetto al polo nord celeste e, nella mitologia greca, sei la madre di Andromeda e moglie del re degli Etiopi Cefeo.

Per me quella sera non eri niente di tutto questo.

Prima non mi interessavi, non avevo mai unito le stelle nel cielo, non era importante per me sapere quale sagoma si formasse una volta chiuso il perimetro. Ho sempre guardato il tutto singolarmente.

Ma, riflessa in quegli occhi azzurri, ti ho vista. Ho visto te e me. E improvvisamente ho capito che ero diventata quella che aspetta: un calore sanguigno mi ha invasa a tal punto che la lanterna si sarebbe potuta accendere solo accostandola al mio petto.

Ho espresso un desiderio. È durato un anno, poi non si è più avverato. Un tempo senza fine, forse, è stata una richiesta troppo tracotante. Ho peccato.

Cassiopea, non riesco più a guardarti adesso. In cosa saresti riflessa? Voglio vederti solo in quegli occhi azzurri, non nel mio dolore.

Non alzo più gli occhi di notte, non posso credere che esisti ancora senza quegli occhi. Non posso vederti, non posso più farlo.

Ho ancora una lanterna, ma nessun desiderio. La tengo lontano, ma quando la guardo so di non essere ancora pronta a lasciarla andare. So che salirebbe verso di te, Cassiopea, ma come potrà scaldarmi ora che non sono in grado di accenderla?

I vuoti danno senso allo spazio, ma il suo vuoto ne crea altri, sempre più grandi, nei quali non riesco a respirare e non ho pace. Quei vuoti rubano la mia materia e scompaiono anche le ossa.

Quanto può essere grande un’assenza? Quanto il silenzio.

Sono cieca, la mia vista vive di ricordi: l’ultima volta che ho osservato quegli occhi erano così azzurri che illuminavano le lacrime che scendevano sul viso. Non riuscivo più a specchiarmici. La mia immagine non c’era più, dov’ero finita?

A terra.

Dove ora sei anche tu. Solo quegli occhi azzurri ti davano una cornice, una sagoma. Ora siamo entrambe informi, Cassiopea.

Il mio dolore non rispetta i contorni e la tua bellezza si è dissipata.

Il cielo è troppo stretto, anche tu ti senti soffocata? È troppo blu, io voglio l’azzurro.

Questo vuoto non si frantuma e non brucia.

Non sei più una regina, Cassiopea, e tantomeno una costellazione.

Quegli occhi non erano solo il tuo specchio, ma tutto il tuo cielo. E ora l’azzurro è diventato blu e tu sei persa nella notte.

E io sono ancora quella che aspetta.

 

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