
La cultura ci rende migliori?
Di recente ho finito un ottimo libro, di un’autrice che certamente tornerò a leggere perché mi ha molto incuriosito. Si tratta di Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana della raccolta di racconti Quella cosa intorno al collo (compralo qui), edito nel 2017 da Einaudi. Tutti i racconti parlano o della Nigeria o degli Stati Uniti, spesso, anzi, i protagonisti sono nigeriani che per vari motivi devono trasferirsi negli USA e rivoluzionare la propria vita. Ciò che mi è piaciuto di questo libro è che mostra, a chi – come me – sa poco nulla di questo paese, tutte le problematiche della Nigeria, le sue ricchezze, i disordini sociali e politici, le contraddizioni, gli usi e le abitudini; ma punta il riflettore anche sulla falsa terra promessa dell’America, che raramente mantiene ciò che promette, ma soprattutto i cui americani sono molto meno liberal di come si spacciano.
Vorrei però soffermarmi sul primo capitolo: Cella uno.
Cose da ragazzi
La protagonista è una giovane ragazza nigeriana, che racconta la storia di suo fratello Nnamabia, appena ventenne. Vivono in una famiglia agiata, non propriamente ricca, ma il padre è professore all’università di Nsukka, hanno una casa, una macchina e la madre tiene nell’angolo di un baule i gioelli d’oro che ha accumulato nella vita.
È da questi gioielli che inizia la vicenda: un giorno i genitori vanno a trovare dei parenti e lasciano soli i due figli con la macchina. Nnamabia lascia la sorella a messa e se ne va senza dire nulla, quando torna a casa, finge sorpresa di fronte al furto dei monili.
Tutti sanno che è stato lui a rubarli e poche notti dopo, Nnamabia torna distrutto dal senso di colpa e puzzolente di birra, dichiarando di averli venduti e aver già sperperato il denaro.
Lo aveva fatto, anche, perché lo facevano altri figli di professori. Nel nostro tranquillo campus a Nsukka era la stagione dei furti. Ragazzi cresciuti guardando i Muppet, leggendo Enid Blyton, mangiando cereali a colazione, andando alla scuola elementare per i figli dei docenti con i sandaletti marroni ben lucidati, ora tagliavano le zanzariere alle finestre dei vicini, forzavano persiane in vetro e si intrufolavano per rubare televisori e videoregistratori.
C’è appunto tutta una generazione di giovani figli di professori, cresciuti ed educati “all’occidentale”, a cui sembrerebbe non essere mancato nulla durante l’infanzia, che vanno all’università, studiano e hanno genitori che li hanno sempre stimolati dal punto di vista intellettuale.
Non sapevo se Nnamabia provasse rimorso per aver rubato i gioielli. Non sempre riuscivo a capire, dal suo viso aggraziato e sorridente, quello che provava davvero. E non ne parlavamo. […] Come se fingere che Nnamabia non avesse fatto quello che aveva fatto gli avrebbe dato l’opportunità di ricominciare. E probabilmente nessuno avrebbe più menzionato quel furto se tre anni più tardi Nnamabia, al terzo anno di università, non fosse stato arrestato e rinchiuso in una stazione di polizia.
Cella uno
Mio padre ha chiesto a Nnamabia di scrivere una relazione: su come si era venduto i gioielli, su come e con chi aveva speso il denaro. Non credevo che Nnamabia avrebbe detto la verità, e non credo neppure che mio padre se lo aspettasse, ma a lui, al mio padre professore, piacevano le relazioni, piacevano le cose messe nero su bianco e documentate. Oltretutto Nnamabia aveva diciassette anni e una barbetta ben curata. Stava in quella terra di nessuno fra le superiori e l’università ed era ormai troppo grande per le punizioni corporali. Che altro avrebbe potuto fare mio padre? Quando Nnamabia ha finito, mio padre ha archiviato la relazione nel cassetto d’acciaio del suo studio dove conservava tutti i nostri documenti scolastici.
Questa è la punizione che il padre riserva a Nnamabia, dopo il furto dei gioielli. Una punizione da padre che vuol fare emergere in proprio figlio un raziocinio bilanciato, una buona capacità di valutare i rischi della vita, di agire secondo un’etica autocostruita e non secondo dettami dell’emotività e dell’impulsività.
Eppure in tutta la città imperversano i cosiddetti culti, aggregazioni di giovani universitari, che praticano riti iniziatici, rubano, usano armi e terrorizzano il quartiere. I docenti vivono nella paura e la polizia fa continuamente retate nel campus. Tutta la famiglia si chiede se Nnamabia faccia parte o meno di uno di questi culti.
Finché non viene arrestato. E le celle in Nigeria non sono carceri occidentali, dove i diritti del recluso sono sempre rispettati. Sono prigioni dove ogni singolo poliziotto è corrotto e l’unico modo per sopravvivere e corrompere quanto più si può. Così Nnamabia prontamente si infila ben arrotolate delle banconote nell’ano, appena viene arrestato, così da potersi «comprare la tranquillità». Così i genitori ogni giorno lo vanno a trovare alla stazione di polizia, portando dei soldi e del riso jollof con carne, sigillati in una busta nera, per poter vedere il ragazzo e farlo mangiare.
In cella gli insetti ti mangiano la carne continuamente, andare di corpo è un’umiliazione continua, in un secchio che le guardie svuotano un’unica volta al giorno. Spesso sono così numerosi nella stanza da dover dormire in piedi, incollati alla parete. A fianco alla cella di Nnamabia c’è la fantomatica «Cella uno», da dove si vocifera nessuno torni vivo; tant’è che dopo pochi giorni che è detenuto si vede passare davanti agli occhi un cadavere tumescente, volutamente strascicato con lentezza dai poliziotti.
Regole diverse
Questo mondo è così lontano eppure così simile dal nostro (con nostro intendo degli europei) da destare un po’ di inquietudine. Le regole sono diverse. Gli elementi che siamo abituati a considerare parte dell’ordine costituito, sono ennesimi elementi di disordine. Ma non è nemmeno una realtà senza principi o valori, c’è quantomeno l’intento di creare una società diversa.
Eppure non è bastato, non è bastato cresce Nnamabia nel migliore dei modi, riempirlo di cereali, di attenzioni, non bastato che la madre con affetto orgoglioso abbia difeso al figlio in tutti i guai in cui si è cacciato fin dall’infanzia. Non è bastato un modello diverso, né la cultura. E non solo per Nnamabia, ma per tutta la sua generazione i libri e al cultura non sono serviti: né conoscere la legge di Gravitazione Universale, né aver letto Sofocle. Sofocle da solo non basta. La cultura non fa l’uomo giusto e responsabile, perché ogni libro può essere letto con ottusità e volendone trarre insegnamenti meschini e riprovevoli.
Questo ci mostra che spesso noi europei (generalmente bianchi, generalmente privilegiati) tendiamo a settare l’intero mondo sul nostro paradigma occidentale. Questo paradigma – che d’altronde non ha reso perfetta nemmeno la nostra di società, dove è fiorito spontaneamente – non può semplicemente essere innestato a radici completamente opposte. Quindi no, un piatto di corn flakes e Shakespeare non salveranno il mondo, né insegneranno a nuove generazioni nigeriane il senso della giustizia (che è comunque quanto di più personale esista) o del buon vivere cittadino. Ma, se può rincuorare, non l’hanno fatto nemmeno con le nostre generazioni, men che meno con quelle americane.
* L’immagine in copertina è Casa di un nativo, artista sconosciuto, 1886.


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