Articolo,  Pareri sciolti

Aracoeli: apologia del brutto

Ho già parlato di maternità in questo articolo, ma a questo proposito le cose da dire sarebbero ancora molte. In quest’ultimo mese ho letto Aracoeli (se vuoi puoi comprarlo qui), l’ultimo romanzo di Elsa Morante. Mentre mi informavo sulla trama del romanzo sul sito di IBS, sfogliando le recensioni, me ne compare una che mi ha fatto sorridere:

Ci pensate mai che si potrebbe morire senza aver letto tutti i romanzi di Morante?

Ed è vero. Già io generalmente ho un’ossessione poco sana che mi fa pensare con angoscia all’idea di morire senza aver letto *inserire titolo di libro potenzialmente bello che vorrei leggere*, ma se penso a Elsa Morante, come posso privarmi di quella spinta immaginifica così straordinaria, originalissima e ancestrale al tempo stesso?

Comunque, io Aracoeli l’ho letto e l’ho amato, ma in modo diverso dall’Isola di Arturo (ne ho parlato qui). Si sente che è un romanzo senile, maturo di una serie di esperienze, quindi, inevitabilmente, un po’ più complesso. Pur essendo strabiliante l’ho trovato faticoso, di quelle fatiche che poi ti rendono felice, perché ogni passo del tuo cammino è stato colmo di bellezza, ma non un cammino senza fiatone.

Scomodità

Dico faticoso, ma dovrei dire scomodo. È troppo facile rifugiarsi in libri belli, ben impacchettati, che scivolano tra le dita come olio fine e non lasciano tracce dietro di sé; a volte bisogna sudare un po’ per avere un libro che ti smuove, che sposta alcuni dei punti di riferimento.

È anzitutto scomodo perché ha un protagonista pateticamente fastidioso, perché brutto e insignificante. Culturalmente siamo disabituati al brutto: da Tiresia fino ai cartelloni pubblicitari di Dior e Armani, siamo stati sottoposti su più fronti al paradigma bello=buono. In generale il brutto non rientra nelle nostre possibilità, se qualcuno si sente tale, lo consoliamo, se ci crediamo tali, tentiamo rimedi di ogni tipo (anche di dubbia efficacia) dalla moda, al trucco, allo sport.

Emanuele è il figlio di Aracoeli, una donna andalusa dalla potenza archetipica, creatrice, infantile e matura in modo alterno, è la mater per eccellenza, con capelli neri e di bellezza inarrivabile. Emanuele è un pover’uomo auto-evirato, un omosessuale inadatto alla vita, autocommiserante e pusillanime. È una persona grigia e inconsistente, così privo di significato (sia per sé stesso che per gli altri) che se scomparisse improvvisamente dalla Terra nessuno se ne accorgerebbe. La causa della sua inguaribile infelicità è soltanto una: la sua bruttezza.

Abituati all’amore

Emanuele è evitato da tutti, non ha amici, nessuno che gli riserbi anche solo un briciolo di affetto, nessuno dopo sua madre. C’è una frase nel romanzo che mi ha molto colpito a riguardo:

Ogni creatura, sulla terra, si offre. Patetica, ingenua, si offre: «sono nato! eccomi qua, con questa faccia, questo corpo e questo odore. Vi piaccio? mi volete?» Da Napoleone, a Lenin a Stalin, all’ultima battona, al bambino mongoloide, a Greta Garbo e a Picasso e al cane randagio, questa in realtà è l’unica perpetua domanda di ogni vivente agli altri viventi: «vi paio bello? io che a lei [a mia madre] parevo il più bello?» E ciascuno, allora, si dà a esibire le proprie bellezze: donde si spiegano le nostre vanità di sperate. Le smanie pubblicitarie delle divette, e le grinte dei generalissimi, e i poteri, e le finanze, e i kamikaze, e gli scalatori, e i funamboli; e ogni traguardo raggiunto, ogni primato («Per lei ero io il primo di tutti»). Orfani e mai svezzati, tutti i viventi si propongono, come gente di marciapiede, a un segno altrui d’amore. Una corona o un titolo, o un applauso, o una maledizione, o un’elemosina, o una marchetta. Tu mi paghi, e dunque accetti il mio corpo. Tu mi ammazzi, e dunque ti danni per me.

La madre ci abitua all’amore, ci fa credere che sia cosa dovuta «come la morte», come se nulla potesse togliercelo. Poi lei scompare, prima o poi, e ci manca l’avvocato della nostra causa di giustizia, manca la garanzia del nostro patto con la vita. Così Emanuele gettato in un mondo indifferente per quanto sbraiti e pedini in modo mesto e rassegnato i suoi amori impossibili, questi lo tratteranno sempre con superbia e disprezzo, scansandolo come un torsolo di mela marcio per strada.

Possibile che nessuno abbia letto le condizioni della mia esistenza? Io accetto di vivere, purché mi sia concesso quel poco di amore che mi ha reso sopportabile fin ora il resto delle ingiustizie della vita.

Questo è il grido di Emanuele, ed è un grido che la nostra società, che noi siamo abituati a scansare, perché ci ricordano quel lato di noi più fragile, sempre sul baratro pronto a cadere. Proiettiamo sulla bruttezza altrui la nostra bruttezza, come un graffio nella parete artificiale del mondo che ciascuno si crea per poter sopravvivere.

Emanuele lo sa e non ha rancore per nessuno, se non una lieve rimostranza per sua madre: tu che mi hai illuso di essere bello, ora che mi hai abbandonato, la colpa della mia sofferenza è tua. È sempre colpa della madre, perché a quell’essere generante noi abbiamo creduto come a una divinità da bambini e quando siamo adulti la rimproveriamo per averci nascosto la sua umanità, il suo essere né più né meno una persona come tante, che sbaglia, offende e ferisce come tutte le persone fanno.

*L’immagine in copertina è Nessuno mi ama, litografia anonima, 1880.

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