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G – Il teatro canzone

Vorrei iniziare questo articolo con una metafora mitologica e letteraria, per incarnare al meglio lo spirito di FioriBlu. Ciò che sto per descrivere, per me, è come un vaso di Pandora; con l’unica differenza che, da questo vaso, non vengono liberati i mali del mondo, ma anzi è un mondo nuovo e gigantesco che si srotola davanti ai nostri occhi e ci fa chiedere come abbiamo fatto a non notarlo per tutto questo tempo. Come in ogni vaso di Pandora, però, qualcosa rimane all’interno, ma verrà svelato solo alla fine.

Nel corso dei diversi articoli trattati dai membri di Aftalina, si è sempre parlato di un aspetto relativo all’ambito teatrale e anche qui non siamo da meno; oggi parliamo del Teatro – Canzone. Per la nostra generazione questo genere può risultare sconosciuto oppure ci può venire in mente per sentito dire; eppure, il teatro-canzone come genere teatrale ha caratterizzato la seconda metà del Novecento, precisamente dal 1970 fino al 2000, tramite il lavoro e le opere dei suoi padri fondatori italiani: Giorgio Gaber e Sandro Luporini. Per dare una definizione riprendo volentieri le parole di Luporini quando afferma che, il teatro-canzone:

è un genere espressivo legato alla teatralità, alla parola e alla musica. La sua struttura è costituita da un’alternanza di canzoni e monologhi o, più precisamente, di parti cantate e recitate che ne caratterizza la specificità e al tempo stesso lo definisce come genere teatrale autonomo.

Ma come si è arrivati a tutto questo?

La nascita del Teatro-Canzone

Giorgio Gaber si avvicina alla musica a causa di una situazione molto particolare; durante l’infanzia si ammala due volte di poliomielite, che colpisce la parte sinistra del corpo, causandogli una lieve paralisi alla mano. Il padre decide di regalargli una chitarra, per ovviare in parte agli strascichi della malattia, legando indissolubilmente suo figlio al mondo della musica. Ambiente in cui fin da subito Gaber si adatta molto bene, tanto da iniziare a suonare nei locali milanesi fin dall’età di 15 anni e man mano farsi strada nel mondo dello spettacolo, stringendo moltissime amicizie con altri colleghi, come Enzo Jannacci e Luigi Tenco. Da qui la strada verso il successo è breve e la meta viene raggiunta nel 1960 con il brano solista “Non arrossire”, che spiana le porte del decennio a un Gaber in continua ascesa all’interno delle televisioni italiane, come cantante, intrattenitore e presentatore. Eppure, all’interno di questo meccanismo qualcosa si rompe. L’aria di cambiamento, caratteristica della fine degli anni ’60, scuote le coscienze e permette di analizzare con maggior lucidità l’ambiente circostante. La magnifica gabbia dorata viene scoperta e si possono finalmente vedere quanto sono strette le sue pareti. Riportando le parole di Giorgio Gaber stesso:

La fine degli anni Sessanta era un periodo straordinario, carico di tensione, di voglia, al di là degli avvenimenti politici e non [politici], che conosciamo, e fare televisione era diventato dequalificante. Mi nauseava un po’ una certa formula, mi stavano strette le sue limitazioni di censura, di linguaggio, di espressività, e allora mi dissi, d’accordo, ho fatto questo lavoro e ho avuto successo, ma ora a questo successo vorrei porre delle condizioni. Mi sembrò che l’attività teatrale riacquistasse un senso alla luce del mio rifiuto di un certo narcisismo.

– G. Harari, «Giorgio Gaber», Rockstar, gennaio 1993.

Dopo una decisione ponderata, Gaber decide di staccarsi nettamente dall’ambiente televisivo, per provare a inserirsi in una sua dimensione all’interno del mondo teatrale. Il 1970 è l’anno della svolta, poiché, tramite l’incoraggiamento e la produzione di Paolo Grassi (allora direttore del Piccolo Teatro di Milano), viene portato in scena il primo spettacolo del teatro – canzone: “Il Signor G”. Gaber e Luporini decidono di creare un personaggio, che non deve recitare un ruolo, ma che interpreta sé stesso, nelle gioie e nei dolori, e tenta di mantenere la propria identità, provando ad allontanare i condizionamenti e le ipocrisie della vita borghese. Il signor G, in questo caso, è un mezzo per avvicinarsi a un pubblico sconosciuto e per confrontarsi sulle tematiche e sulle situazioni quotidiane che colpiscono personalmente la platea. Difatti G non sta per Gaber, sta per Gente. Inoltre, è un tipo di formula teatrale molto innovativa, poiché il pubblico non va ad assistere al cantante per canzoni già conosciute, ma per canzoni e monologhi mai sentiti. Essendo il primissimo tentativo di teatro – canzone, lo spettacolo è un po’ acerbo, non ci sono veri e propri monologhi alternati alle canzoni, ma parti parlate, inoltre riscuote un successo tiepido. Però, sempre grazie all’aiuto di Paolo Grassi, Giorgio Gaber e Sandro Luporini decidono di continuare e approfondire la formula del teatro – canzone, poiché ormai riconoscono che il teatro sia la strada giusta.

Capii che potevo vivere così e che quella era la mia strada. Vivevo meglio. […] All’inizio ebbi un po’ di paura, perché dopo i “pienoni” con Mina nessuno veniva più a vedermi. Però, nonostante lo choc, dentro di me sentivo che era giusto farlo.

– Scanzi, «Anche per oggi non si vola», Il Mucchio Selvaggio, marzo 1999)

Il Teatro-Canzone: rappresentazione e temi

Dopo la rappresentazione de “Il signor G”, Gaber e Luporini si incontrano ogni estate in Toscana per la stesura dello spettacolo dell’anno successivo. Parlano molto e discutono dei temi che hanno caratterizzato l’anno, la loro generazione e il loro pubblico, con cui nel corso del tempo si instaura un dialogo di reciproca influenza. Col susseguirsi degli spettacoli non serve più un personaggio come il signor G, per dialogare con gli spettatori: è Gaber stesso, che, con l’interpretazione vocale, recitativa e corporea e senza nemmeno l’ausilio delle scenografie, ma con i gesti, le espressioni facciali, le posture, i movimenti (s)coordinati, evoca l’ambiente circostante necessario per contestualizzare e far immergere completamente chi lo guarda nel monologo o nella canzone. Gaber incarna le esigenze e le insofferenze di una generazione che vive i profondi cambiamenti della seconda metà del ‘900 e lo fa con un trasformismo incredibile, passando dalla voce più delicata e leggera, che fa trasparire la dolcezza degli argomenti, alla rabbia più cruda e gridata, sia nei monologhi, sia nelle canzoni. Caratteristici sono anche i tempi comici, in cui l’artista sembra avere un talento naturale, ma anche i capovolgimenti di situazione, per cui Gaber passa dal comico al tragico in pochi secondi, investendo il pubblico di emozioni e portandolo a riflettere sulla vita, in momenti che mai si sarebbero potuti prevedere all’interno dello spettacolo. Riportando un’altra metafora letteraria, potremmo considerare il pubblico del teatro canzone come una “creatura” inizialmente inerte, a cui Gaber dà la vita tramite lo spettacolo e la sua personale energia, come un fulmine prorompente.

I temi affrontanti nel corso degli anni sono molteplici e variano di spettacolo in spettacolo, partendo dalla condizione della vita borghese, con le sue ipocrisie, per poi vertere sull’analisi psicologica dell’individuo e sul senso di disorientamento, di fronte a una realtà imprevedibile e a una società che ci vuole indipendenti e in movimento, rispetto a uno scenario di infinite possibilità dove noi siamo ininfluenti; si arriva, così al tema della massificazione dell’individuo. Nonostante siano passati 50 anni dai primi album, i temi del teatro-canzone restano attuali, specificatamente partendo da “Far finta di essere sani, personalmente uno dei miei preferiti e il secondo album dove non è più presente il personaggio del signor G. Il suo impatto, fin dalle prime parole, è paragonabile a un faro che si illumina nella notte, dando luce al mondo introspettivo di ognuno di noi. Con questo album in particolare il mio viaggio all’interno del teatro-canzone si è consolidato e continua, opera dopo opera, con la parallela ricerca dei video degli spettacoli registrati per la televisione. Affermo che i temi sono attuali, perché l’ascolto desta sia la voglia di un miglioramento della situazione odierna, sia la rabbia per la disillusione di un futuro, che ci sta piano piano venendo strappato dalle mani.

Se siete arrivati a leggere fin qui, vi ringrazio. Vuol dire che, insieme a me, avete aspettato che dall’apertura di questo vaso di Pandora uscissero tutti i contenuti e gli aspetti che hanno caratterizzato e definito il teatro canzone. Ora possiamo affacciarci e vedere cosa è rimasto.

La risposta è la nostalgia.

Non è un male, può essere definita più una mancanza. Ed è ciò che possiamo provare, e io personalmente provo, ad ascoltare gli album di Giorgio Gaber. Un artista che è riuscito a raccontare la realtà e il tempo intorno a lui con profonda lucidità e coscienza, anticipando anche in alcuni casi l’andamento della storia. Un senso di nostalgia generale permea l’esperienza uditiva e di comprensione degli album, poiché ci si sente capiti da un artista rivoluzionario, attraverso canzoni e monologhi che noi non potremo mai vedere dal vivo.

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