
Le passanti: emozioni sfuggenti
È un tema piuttosto ricorrente, che personalmente mi affascina molto: ogni giorno della nostra vita incontriamo decine di persone. Aspettano davanti a noi in coda al supermercato, siedono al nostro fianco sul tram, le incrociamo per strada; per pochi minuti abbiamo una visione del loro viso, del loro portamento, di come si vestono, magari li sentiamo parlare e pensieri fuggevoli su di loro ci arrivano alla mente; eppure presto li dimentichiamo, mentre molte altre impressioni ci si affacciano nella mente.
Oggi vorrei vedere due casi letterari e una canzone, che hanno parlato dei passanti; ci sono peculiarità e differenze tra le varie analisi e mi sembra curioso provare a confrontarli.
A una passante, Charles Baudelaire (1855)
Il primo testo è una poesia di Baudelaire, che lascio qui di seguito nel testo integrale, prima di commentarla.
Attorno m’urlava la strada assordante.
Alta, sottile, in lutto, nel dolor regale, una donna passò,
alzando con superba mano e agitando, la balza e
l’orlo della gonna; agile e nobile, con le gambe statuarie.
Ed io le bevevo, esaltato come un folle, nell’occhio,
cielo livido presago d’uragano,
dolcezza che incanta e piacere che dà morte.
Un lampo … poi la notte!
Bellezza fugace, il cui sguardo m’ha ridato vita a un tratto,
nell’eternità solamente potrò rivederti?
Altrove, lontano, troppo tardi, mai forse!
Perché ignoro dove fuggi, e tu dove io vada,
o te che avrei amato, o te che lo sapevi!
Lo vedremo anche più avanti, è abbastanza topico che delle passanti ci si innamori, perché sono bellissime, ma soprattutto perché incomplete. È il vuoto che lasciano attorno a loro che permette alla nostra fantasia di costruire su quel vuoto infiniti castelli di meraviglie. Basta il gesto di una «superba mano» per immagina un carattere orgoglioso e sicuro, «l’orlo della gonna» per ipotizzare enormi armadi di vestiti eleganti, un buon gusto raffinato, una mente fine e acuta. La realtà è sempre scadente, quando, come Leopardi, oltrepassiamo la siepe e ci avviciniamo alla rosa, notiamo che è rovinata, già marcisce, ma se la rosa ci passa a fianco come «un lampo», essa rimane perfetta. La nostra mente può viaggiare verso immensità che mai sarebbero realizzabile nella realtà, nessuna rosa è bella come quella che possiamo sognare. Ignoriamo tutto di questa donna, dove vada, cosa faccia, e in potenza lei può essere tutto, fare tutto, andare ovunque. Tant’è vero che nel delirio estremo addirittura lei già ci conosce, non solo, ma ci capisce: «o te che avrei amato, o te che lo sapevi».
Le passanti¸ Fabrizio De Andrè (1974)
Io dedico questa canzone
Ad ogni donna pensata come amore
In un attimo di libertà
A quella conosciuta appena
Non c’era tempo e valeva la pena
Di perderci un secolo in più.
A quella quasi da immaginare
Tanto di fretta l’hai vista passare
Dal balcone a un segreto più in là
E ti piace ricordarne il sorriso
Che non ti ha fatto e che tu le hai deciso
In un vuoto di felicità
Alla compagna di viaggio
I suoi occhi il più bel paesaggio
Fan sembrare più corto il camminoE magari sei l’unico a capirla
E la fai scendere senza seguirla
Senza averle sfiorato la manoA quelle che sono già prese
E che vivendo delle ore deluse con un uomo ormai troppo cambiato
Ti hanno lasciato, inutile pazzia
Vedere il fondo della malinconia
Di un avvenire disperatoImmagini care per qualche istante
Sarete presto una folla distante
Scavalcate da un ricordo più vicino
Per poco che la felicità ritorni
È molto raro che ci si ricordi
Degli episodi del camminoMa se la vita smette di aiutarti
È più difficile dimenticarti
Di quelle felicità intraviste
Dei baci che non si è osato dare
Delle occasioni lasciate ad aspettare
Degli occhi mai più rivistiAllora nei momenti di solitudine
Quando il rimpianto diventa abitudine
Una maniera di viversi insieme
Si piangono le labbra assenti
Di tutte le belle passanti
Che non siamo riusciti a trattenere
Un discorso molto simile è fatto anche da Fabrizio De Andrè. Non solo le passanti ci lasciano immaginare tutto un mondo in realtà non vissuto (sorrisi mai fatti, confessioni non avvenute), ma oltre al vuoto di sé stesse lasciano dietro di sé il vuoto della nostra inettitudine all’azione. Quante volte si è sognato di trattenere qualcuno? Sfiorare la mano, sorridere, baciare qualcuno che un attimo dopo era già sprofondato nella più inesorabile dimenticanza.
Questo è un malinconico canto alle occasioni perse, di una vita che non può essere ogni giorno piena come una favola e spesso scorre tra rimpianti e passanti, «che non siamo riusciti a trattenere». Come ogni giorno si fatica a trattenere qualche grammo di felicità nel fiume di emozioni che ci scorre nelle vene.
I passanti, Franz Kafka (1904)
Quando di notte si passeggia per una via, e ci corre incontro un uomo già visibile di lontano perché la strada è in salita e c’è la luna piena − non lo afferreremo, anche s’è debole e cencioso, anche se qualcuno corre dietro a lui e grida, ma lo lasceremo proseguire.
Perché è notte, e non dipende da noi che la strada salga, dinanzi a noi, nella luna piena, e inoltre, forse quei due hanno organizzato quell’inseguimento per divertirsi, o forse tutt’e due inseguono un terzo, forse il primo viene inseguito senza ragione, forse il secondo vuol uccidere e noi diverremmo correi in un omicidio, forse i due s’ignorano completamente, e ciascuno di loro, sotto la propria responsabilità, se ne corre a letto, forse sono dei sonnambuli, e forse il primo ha delle armi.
E infine, non saremo stanchi, dal momento che abbiamo bevuto tanto vino? Possiamo esser contenti di non vedere più nemmeno il secondo.
Concludo col racconto breve di Kafka, molto più angoscioso, come sempre è Kafka, più inquietante. Siamo di notte e i passanti sono due e corrono, ma dove? Perché? Cosa c’entro io in questa situazione? I passanti di Kafka non ci fanno essere malinconici, non ci fanno innamorare, ma ci riempiono di dubbi, di angosce. Sono passanti che simboleggiano la paura dell’ignoto, di tutto ciò che introno a noi non riusciamo a comprendere, non riusciamo a classificare. Sono i misteri che ogni giorni ci passano accanto, lasciandoci quel senso di inquietudine, di incomprensione e angoscia.
In generale queste tre interpretazioni ci dicono che i passanti sono il simbolo di tutto ciò che non riusciamo a trattenere, che ci passa accanto nella vita prima che possiamo farcelo entrare appieno o che decidiamo di non far entrare; ciò che accettiamo rimanga un’ombra senza volto, nascosta tra le pieghe della memoria.
* L’immagine in copertina è Boulevard Montmartre di Camille Pissarro, 1897, olio su tela.


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