
Pinocchio di Guillermo del Toro, ovvero della libertà dell’artista
Bruce Lee se le prende
Nel film C’era una volta a…Hollywood (2019), uno dei protagonisti, lo stuntman Cliff Booth (Brad Pitt), assiste a un discorso pronunciato nientemeno che da Bruce Lee. Siamo verso la fine degli anni ‘60, periodo in cui Lee sta incominciando la sua ascesa nel cinema americano; di fronte a un modesto pubblico di controfigure, Lee pronuncia con perentoria arroganza la sua visione delle arti marziali e decanta le sue abilità, suscitando la derisione di Cliff. Ne nasce una sfida sul campo, per stabilire chi sia davvero il miglior combattente fra i due. La contesa verrà interrotta, ma resta il fatto che ad un certo punto Cliff riesce a scaraventare Bruce addosso a una macchina (del produttore), assestando così un bel colpo alle certezze della star.
È una sequenza di qualche minuto, eppure ha fatto storcere più di un naso. Il regista (Tarantino) è un ignorante, oppure è in malafede, perché Bruce Lee non si sarebbe mai pavoneggiato, e men che meno si sarebbe fatto sconfiggere da uno stuntman! A questi commenti, Tarantino risponde a suo modo in un’intervista concessa allo Youtuber Joe Rogan:
Questa piccola e in fondo sciocca querelle avrebbe molto da dire: sull’immagine idealizzata delle icone dello spettacolo; sull’aura di purezza e di sapienza che ammanta Bruce Lee solo in quanto artista marziale e sulla retorica moraleggiante che pervade le arti marziali tout court; sulla visione e sull’uso della storia e dei suoi protagonisti nei film di Tarantino. Mi limiterò ad apprezzare in cuor mio questo breve saggio di sano menefreghismo per i critici e a trarne uno spunto utile per l’argomento di cui vi aspettate che si discuta, ossia Pinocchio di Guillermo del Toro.
Mille e un Pinocchio
Di versioni sul grande schermo della storia di Collodi, pubblicata a Firenze nel 1883 sotto il titolo di Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, se ne trovano di ogni tipo. Ad oggi si contano, fra adattamenti, seguiti o pellicole semplicemente ispirate, nove film dal vivo e dieci film d’animazione, tra cui da segnalare certamente il Pinocchio della Disney (1940), che ha sostanzialmente soppiantato la versione originale nella cultura di massa.
Di fronte a questa selva di riproposte, verrebbe da implorare meritato riposo per il burattino, soprattutto alla luce di stanche copie-carbone come quella del remake disneyano del suo stesso classico, in versione live action (2022). Tuttavia, quando un’opera si radica così profondamente nella collettività, essa trascende i suoi confini cartacei o audiovisivi per entrare nel dominio degli archetipi, dei riferimenti culturali ed emotivi già sedimentati e stratificati, con cui un autore può giocare e creare.
Da una fiaba tradizionale…
Questo avviene con Pinocchio di Guillermo del Toro. Non è un refuso: il titolo contiene il nome del suo ideatore, e non è casuale. Alla fine del documentario Pinocchio di Guillermo del Toro – Film scolpito a mano, del Toro dichiara:
Quando abbiamo iniziato a lavorare a Pinocchio, sapevo di volerne fare la mia versione […] volevo parlare di cose che mi toccano profondamente.
Il documentario, affascinante e meraviglioso, è la via privilegiata per accedere al cuore del film (ma solo dopo la sua visione!). Innanzitutto, illustra allo spettatore la particolare tecnica di animazione adottata, ovvero la stop motion, anche detta “passo uno”. Con questa espressione si intende un tipo di ripresa in cui la videocamera registra un fotogramma alla volta (da qui la denominazione italiana): in altre parole, il prodotto finale è dato da una fittissima sequenza di fotografie, che unite insieme danno l’illusione del movimento. Applicata al campo dell’animazione, la stop motion si presta non solo all’uso di disegni, ma anche di pupazzi e ambientazioni tridimensionali. Il messaggio meta-cinematografico è evidente ed efficace: come il burattino di legno prende vita per magia e diventa simile a un bambino vero, così lo stesso svolgersi del film è dato dal movimento, impresso dalla mano dell’uomo, di manichini e oggetti. E tuttavia, Pinocchio non è davvero un bambino, e soffre e si interroga sulla sua estraneità rispetto al resto del mondo; allo stesso modo, la stop-motion restituisce allo spettatore la natura artefatta, quasi di “non-finito” della sua operazione, come si percepisce dagli scatti fra un fotogramma e l’altro e dalle imperfezioni dei colori e degli intagli.
Come sostiene Del Toro, questa atmosfera di artigianalità procura piacere, perché permette allo spettatore di sbirciare nel processo creativo, di intuire il «legame magico» che unisce l’animatore al suo manichino. Un’artigianalità che, nel caso di Pinocchio, si può definire arte a pieno titolo, per la cura maniacale del dettaglio nella fabbricazione delle scenografie e dei personaggi e nella loro animazione, ma soprattutto perché è una consapevole e precisa scelta estetica, che collabora con la storia per trasmettere la personale visione dell’autore.
Il romanzo di Collodi gira tutto attorno al percorso di metamorfosi materiale ed etico-spirituale del protagonista, secondo un topos vecchio quanto la letteratura. Pinocchio è ingenuo, capriccioso, svogliato, ricade sempre negli stessi errori e ne sperimenta le conseguenze, giungendo fino all’umiliazione della trasformazione in asino (che ha un illustre precedente nelle Metamorfosi di Apuleio). Nel mondo in cui si muove vigono le leggi e i ritmi della fiaba tradizionale: illogicità, un tempo non definito, azioni e frasi ripetute, personaggi-tipo, animali parlanti o uomini che sembrano di più orchi; ma anche gli inganni, la spietatezza, la violenza in cui ci si imbatte fuori dalla propria casetta, che non vengono mai censurati. È dunque una storia sul dramma della povertà e della fame, sulle responsabilità e sulle scelte che essere un “bambino vero” comporta.
…a un lavoro d’artista
Pinocchio di Guillermo del Toro mostra fin dalla prima scena di voler prendere una direzione diversa. Vediamo infatti un Geppetto affranto sulla tomba di suo figlio Carlo, perso a causa di un bombardamento durante la prima guerra mondiale. Un elemento inedito, la guerra, irrompe subito nella vicenda: ne verrà ritratta soprattutto la ridicola insensatezza, attraverso personaggi caricaturali e ottusi, ma allo stesso tempo proietterà sempre la sua ombra di brutalità e perversione, una minaccia pronta ad essere innescata, come delle bombe che galleggiano sul mare.
Questa ed altre caratteristiche ci permettono di ascrivere l’opera al filone del “realismo magico”, ovvero di quel genere caratterizzato da un contesto del tutto verosimile nel quale però vengono inseriti, quasi in sordina, uno o alcuni elementi sovrannaturali. I gesti dei personaggi, il loro aspetto spesso sporco, brutto, segnato dalla fatica e dal tempo, la rappresentazione di edifici e oggetti sono estremamente credibili. Il design di Pinocchio è in tal senso emblematico: il legno non è dipinto né levigato; le giunture di ferro delle sue articolazioni cigolano ad ogni suo passo; dei chiodi sono rimasti piantati nel retro del ceppo da cui è stato ricavato il torso; i capelli, mossi, e l’orecchio sono scolpiti con cura solo su metà del volto. Geppetto lo costruisce in fretta, in una notte tormentata, e si addormenta prima di concludere l’opera.
Il dolore e il significato della morte e della paternità sono alcuni dei temi originali che sorreggono questo Pinocchio. Lo sguardo di del Toro si posa non solo sul burattino, ma anche su Geppetto, che vive il suo personale cammino di crescita, comprendendo solo poco per volta i suoi sentimenti per la sua creatura, plasmata pensando a Carlo, ma che Carlo non è. Il mondo non capisce o peggio sfrutta Pinocchio, che proprio perché prende coscienza del suo essere alienato compie il suo allontanamento da casa. Il suo viaggio lo porta a scoprire ed accettare la sua individualità, ma anche a fare i conti con le sue origini e con le regole dell’essere umani. I personaggi magici in cui si imbatte sono ben diversi dalla rassicurante Fata Turchina e dai suoi compagni animali: entità ultraterrene, distanti dal mondo dei mortali, avvolte da un’aura di arcano mistero e imperturbabilità, senza però essere terrificanti o indifferenti. Sul loro ruolo, che non viene spiegato apertamente nel film, lascio alla curiosità dello spettatore di interrogarsi.
La risoluzione finale delle avventure dei protagonisti rappresenta l’ultima e forse la più interessante firma dell’autore su questo inedito Pinocchio, commovente, ma anche vera, nella sua assenza di romanzesco, e rivolta verso il futuro, sia del burattino sia dei suoi piccoli e grandi ammiratori, al di là dello schermo o della pagina.
E quindi cosa accomuna Tarantino a Del Toro? Entrambi non hanno interesse a restare aderenti alla “versione ufficiale”. Si lasci il lavoro di copiatura agli amanuensi: le riscritture di una storia non solo ne testimoniano la vitalità negli anni, ma le arricchiscono con il contributo di chi le riprende in mano e addirittura inducono ad analizzarle e comprenderle meglio, attraverso la riflessione sui contrasti e sui parallelismi. E a ben vedere, l’intera letteratura non è altro che un’infinita serie di corsi e ricorsi narrativi, un estrarre di tanto in tanto un vecchio tomo, un po’ consunto ma certo affascinante, dalla biblioteca di Babele.


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