
Apologia dell’herstory
Cos’è l’Herstory?
Com’è è facile intuire è un termine inglese, nato nella cultura anglosassone dell’ultimo secolo e nasce da un gioco di parole: partendo dalla parola inglese history, che significa “Storia”, si nota che è composta da hi (cioè lui, egli, persona di sesso maschile) è story (appunto storia). Siamo quindi di fronte a una scoperta non tanto sconvolgente: la storia l’hanno scritta gli uomini, parlando di altri uomini (che presumibilmente l’hanno “fatta”) e agli uomini. Giunti però alla agognata parità di genere (forse), riprendiamoci quello che è nostro (o almeno proviamoci): parliamo di herstory, cioè la storia dal punto di vista delle donne, per le donne e fatta dalle donne.
Capito di cosa si tratta il gioco è facile, si può fare herstoy di qualsiasi cosa: storia dell’arte, della letteratura, del cinema, del teatro, ma anche herstory del videogioco, della ceramica o di qualsiasi aspetto dell’umano. Possono venire dei dubbi comunque: è una trovata, un progetto ideologico, evidentemente, ma non sfocia nella discriminazione a sua volta? O peggio nell’autoreferenzialità chiudendosi nella sua bolla elitaria? O è invece uno strumento utile se ben calibrato e usato con consapevolezza? Oggi vorrei provare non dico a rispondere, ma a riflettere su questi concetti attraverso due esempi letterari che ho letto di recente e mi sono sembrati molto stimolanti.
Storia
Svetlana Aleksievič, scrittrice e giornalista biellorussa, ha vinto il premio Nobel per la letteratura nel 2015 «per i suoi scritti polifonici, un monumento alla sofferenza ed al coraggio nel nostro tempo». Ha infatti, tra le altre cose, scritto un libro molto bello: La guerra non ha un volto di donna, uscito proprio nel 2015, dove racconta la Seconda Guerra Mondiale in modo inedito. Aleksievič ha infatti voluto intervistare decine e decine di donne che hanno combattuto attivamente nella guerra e non solo nelle retrovie: aviatrici, soldatesse semplici, generali e comandanti, mitragliere, oltre che infermiere e addette alla cucina o alla lavanderia da campo. Tutte volontarie. Sono moltissime e quasi interamente eclissate dalla storia, perché la guerra che si voleva raccontare era retorica e maschile, una Vittoria col volto di uomo, dove il ruolo centrale delle russe viene completamente dimenticato.
Tuttavia l’operazione di Aleksievič non è solo di riscatto, non vuole solo raccontare la verità, vuole dare un nuovo punto di vista, una nuova prospettiva: la guerra raccontata dalle donne non sembra essere la stessa di quella degli uomini. È generalmente più cruda, è fatta anche di elementi che sembrano secondari, di dettagli umani forse non indispensabili, ma utili a una piena comprensione del nostro passato. Le donne ci parlano anche del lato meno eroico, delle frivolezze, dei continui compromessi con la realtà. È uno stupendo viaggio nella memoria, che Aleksievič coordina abilmente: tante piccole forme frammento di ricordi di queste donne, ben etichettate e riorganizzate sotto titoli espressivi e piccoli intermezzi dove la stessa autrice ci conduce alla scoperta della memoria.
Solo molto tempo dopo, di lì a trent’anni, hanno cominciato a onorarci… a invitarci alle celebrazioni dei veterani. Ma all’inizio ci nascondevamo, non ci appuntavamo neanche le decorazioni al valore. Gli uomini le portavano, le donne no. Erano gli uomini i vincitori, gli eroi, i buoni partiti, la guerra era stata una cosa loro, noi invece, hanno cominciato a guardarci con occhi diversi. Glielo voglio dire: ci hanno defraudato della vittoria. Dandoci in cambio un’ordinaria tranquillità femminile. Non avevano voluto condividere con noi la vittoria. Ed era offensivo… incomprensibile… Perché al fronte gli uomini avevano nei nostri confronti un atteggiamento che non finiva di stupire, ci proteggevano in ogni circostanza. Non li ho mai visti comportarsi in questo modo nella vita civile. […] Dividevano con noi l’ultima galletta. Da parte loro durante la guerra abbiamo visto e ricevuto solo bontà e calore. Una volta finita la guerra, invece… Taccio… E tacciamo. Che cosa ci impedisce di rievocare il passato? La fatica e la sofferenza che ci procurano.
Valentina Pavlovna Cudaeva, sergente, capopezzo di artiglieria contraerea, in La guerra non ha un volto di donna
Arte
È invece uscito quest’anno Self-portrait di Melania Mazzucco, la continuazione di un suo vecchio progetto Il museo del mondo. Quest’ultimo libro era la raccolta di piccoli interventi comparsi su Repubblica dove la scrittrice ogni settimana parlava di un quadro scelto dalla storia dell’arte. Dopo il successo di questo libro d’arte sui generis Mazzucco ha ripensato al progetto in modo diverso: dei 52 dipinti trattati in Il museo del mondo appena 3 erano di donne. Questo perché i dipinti di artiste donne sono pochi? Perché sono di scarso valore? Perché imparagonabili a quelli dei pittori? Secondo Mazzucco, e anche secondo me, perché queste donne pittrici e i loro quadri non hanno una vetrina, un luogo di esposizione adatto e per una sorta di bias cognitivo culturale passano inosservati.
Da qui il nuovo progetto: creare un piccolo museo cartaceo dedicato ai dipinti del femminile, dipinti doppiamente femminili perché dipinti da donne e rappresentanti donne. È davvero un bel viaggio quello tracciato da Mazzucco che permette di scoprire autrici straordinarie finite presto nell’oblio dei più, quadri rivoluzionari, idee originali.
Perché abbiamo bisogno dell’herstory
Certo, l’obiettivo generale del femminismo è arrivare alla parità di genere che è anche una parità culturale, ma è il come riuscirci a destare dei dubbi. Ad un primo sguardo può sembrare che posizioni e tentativi come quelli appena citati vadano in direzione opposta, releghino le donne in luoghi per le donne, piccoli ginecei culturali dove finalmente la donna può avere un ruolo e non altrove. Ma in realtà si tratta di un’operazione più complessa: si sta recuperando una tradizione.
Ogni soggettività ha bisogno di una sua storia, di recuperare una propria genealogia di antenati che fondino una sorta di città ideale, le fondamenta per rivendicare il proprio spazio nel mondo. È questo che fa l’herstory: non riscrive la storia, ne fa un compendio, non sminuisce il ruolo maschile, i pittori, gli scrittori, i soldati, ma ricorda e completa una storia manchevole. Perché a dispetto di quanto si crede, non sono mai esistiti solo pittori, solo soldati, solo scrittori. Dimenticare il ruolo delle donne non è solo ingiusto, ma dà anche una descrizione inesatta della realtà, perché incompleta. Siccome, inoltre, nessun uomo sembra avere particolare interesse ai ruoli cosiddetti ancillari della storia, allora sì, sono le donne in prima linea a fare ricerca, a riaprire gli archivi (è a Mazzucco che si deve il giusto riconoscimento di pittrici moderne come Plautilla Bricci o Marietta Tintoretto), intervistare le persone, perché anche chi non vuol essere cieco veda un’altra faccia della Storia, che insieme contribuirà al pieno realizzarsi del quadro finale.
* L’immagine in copertina è Infermiera che assiste i feriti nell’ospedale militare sovietico, 1962, autore sconosciuto.


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